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biodiversitIl 2010 è stato proclamato dall’ONU anno della biodiversità. Con la consueta attenzione a questo genere di informazione, quasi tutti i media nazionali hanno  ignorato questa notizia, deliziandoci piuttosto con interminabili telenovela sulle star della politica nazionale. Eppure è evidente che fra cento anni a nessuno importerà un fico secco se Fini ha agitato il suo indice sotto il naso di Berlusconi, mentre tutti si chiederanno dove erano rintanate le persone per bene mentre si consumava un olocausto di proporzioni bibliche.
Quando si parla di biodiversità pensiamo subito ai panda, alle balene, agli elefanti, ai gorilla o ad altre specie viventi che occupano un posto molto vicino a noi nella scala evolutiva e che, anche per questo, suscitano le nostre attenzioni e le nostre simpatie. E in effetti la possibile estinzione di queste specie rappresenta una grave ferita all’equilibrio ecologico del pianeta, proprio in considerazione del fatto che hanno impiegato milioni di anni per raggiungere quel grado di complessità biologica. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il numero di specie viventi in pericolo di estinzione si conta in termini di migliaia. Ogni anno il patrimonio biologico del pianeta si impoverisce di centinaia di elementi; e non solo negli ambiti “naturali” come le foreste o gli oceani, ma anche in quelli “domestici”: a puro titolo di esempio, delle 400 varietà di grano coltivate in Italia prima della seconda guerra mondiale ne rimangono la metà; e lo stesso destino è condiviso da tutte le specie di cereali. L’agricoltura intensiva, nonostante il controllo artificioso e totale sulle condizioni ambientali, è esposta a rischi sempre maggiori di “calamità naturali” (siccità, attacchi di parassiti, infestanti, malattie) che in coltivazioni maggiormente differenziate provocavano danni “accettabili”. Stesse considerazioni valgono per gli allevamenti, con l’aggravante di condizioni di vita così mostruose da mettere in dubbio la definizione stessa di “animali” riferita ai “prodotti alimentari” allevati.
Le conseguenze dell’impoverimento della biodiversità non sono valutabili facilmente, ma sono molto inquietanti. Basti pensare che circa un terzo del cibo consumato dall’umanità proviene da piante impollinate da impollinatori selvatici. La straordinaria mortalità delle api degli ultimi anni dovuta probabilmente all’uso di pesticidi in agricoltura (problema fortunatamente decrescente), sta causando problemi anche economici a diversi tipi di coltivazioni. Questo esempio ci fa intuire quanto ogni singola parte di un meccanismo ecologico complesso, come è il nostro pianeta, sia in relazione strettissima, anche se non sempre evidente, con tutti gli altri.
Non voglio annoiare con la solita tirata sull’uomo che, nel suo delirio di onnipotenza, dimentica quanto fragile sia la sua sopravvivenza e che, nonostante la sua indubbia supremazia tecnologica su tutte le altre specie, vive comunque in un contesto ecologico e da esso dipende. Ma al di là dell’approccio “utilitaristico” al problema, che pure basterebbe a mettere fortemente in dubbio la propria superiorità culturale, credo che l’umanità dovrebbe porsi seriamente il dubbio di quale sia il senso della sua presenza nell’universo e magari sceglierne uno, quale che sia; di certo il nostro grado di progresso tecnologico ci pone in una posizione di necessaria attenzione: il nostro agire non può più seguire l’istinto impulsivo al dominio e alla distruzione delle altre forme di vita perché, per la prima volta, siamo realmente in grado di realizzare questo incubo.

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