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kmzeroSupermercato, ora di punta. Nel traffico convulso dei carrelli, un'”isola” sembra ignorata: frutta e verdura da agricoltura biologica fanno mostra di sé ben impacchettati in asettici avvolgimenti. Un signore inforca gli occhiali e si immerge nella lettura di un'etichetta (le vere massaie non hanno tanto tempo da perdere) e, dopo attenta analisi, ripone con cura il pacchetto di pomodori nello scaffale e si perde nel flusso di consumatori. Come dargli torto? In inverno, quattro pallidi pomodori dalla pelle liscia, provenienza Olanda, non sono affatto invitanti.
Nessuno mette in discussione l'importanza dell'agricoltura biologica. Uso sostenibile del terreno agricolo, salvaguardia della risorsa idrica, salubrità e gusto nei cibi a tavola sono parametri essenziali della sostenibilità. Ma come può definirsi “biologico” un prodotto che porta nel bilancio energetico della sua origine uno spregiudicato consumo di combustibili fossili? Se possiamo transigere sulla meccanizzazione della produzione, diventa imbarazzante difendere il riscaldamento artificiale delle serre per non parlare del trasporto dai lontani paesi di produzione.
Naturalmente non è il cibo biologico che voglio demonizzare, ma tutti i prodotti, non solo agricoli, che vengono da molto lontano. Nel mondo del consumo globalizzato, la grande distribuzione di beni fa i conti costi-benefici secondo un unico e semplice criterio: il più alto profitto possibile. Magari preoccupandosi di nascondere questo modo d'agire dietro un pretestuoso contenimento dei prezzi: sono i consumatori che richiedono prodotti a basso prezzo e quindi, per non essere emarginati dalle dure leggi di mercato, si acquistano le merci là dove queste costano meno; e considerando anche il basso costo dei trasporti, vengono giustificate situazioni paradossali; non solo i pomodori olandesi, ma anche il succo di arancia importato dal Brasile, le fragole dalla Cina, le rose dalla Tanzania e così via. Apparentemente, queste attività creano occupazione e “sviluppo” in paesi poveri (o cosiddetti “in via di sviluppo”); ma di quale “sviluppo” si tratta? Sviluppo che impiega mano d'opera a basso costo per produzioni destinate unicamente al mercato estero, i cui profitti vanno principalmente a multinazionali che difficilmente li reinvestiranno nei luoghi di produzione. Inoltre, dal nostro punto di vista, è davvero nostro interesse risparmiare qualche centesimo sulla spesa pagandone poi i costi in  termini di mancata occupazione locale e inquinamento legato ai trasporti intercontinentali?
Sottoposti dalla grande distribuzione a una continua sollecitazione all’acquisto di cibi di provenienza lontana, esotica, abbiamo in gran parte perso l'abitudine ai prodotti agricoli di stagione e di prossimità; molti di noi, specie fra i più giovani, non sanno più quando e dove crescono cavoli e melanzane. Non è necessario essere macrobiotici per intuire l'importanza per il nostro organismo di assumere cibi a noi vicini per luogo e stagione. La natura ci insegna che qualsiasi organismo vivente trova tutto ciò di cui ha bisogno in un ristretto ambito intorno a sé; l’equilibrio fra noi e il nostro ambiente si misura anche con la vicinanza ai luoghi di produzione dei cibi che ingeriamo. Non voglio dire che il consumo sporadico di cibi “esotici” sia necessariamente dannoso; semplicemente credo che bisognerebbe riacquistare una “quotidianità” fatta di prodotti locali e “di stagione”. Anche se, nel nostro mondo invaso dalle merci, il semplice alimentarsi in maniera naturale assume il senso di un vero atto rivoluzionario.
Che fare, dunque? Negli ultimi tempi la coscienza del problema si sta rapidamente allargando e si può ormai parlare di un vero “movimento km zero” che si organizza soprattutto attraverso i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale). Si tratta di gruppi di persone accomunati da vicinato e sensibilità al problema che stringe rapporti con piccoli produttori locali; una vera e propria rete distributiva autogestita che coniuga il giusto prezzo per piccoli produttori (altrimenti costretti a svendere le proprie produzioni a grossisti) con il diritto a nutrirsi con cibi sani e saporiti. Il contatto diretto tra produttore e consumatore responsabilizza entrambi: chi acquista dovrà costruirsi una competenza sulla reale qualità dei cibi, chi produce avrà un interesse concreto e diretto a mantenere alta la qualità dei suoi prodotti. Sul sito www.retegas.org è possibile trovare maggiori informazioni e contatti.
Ma anche se non in forma organizzata, porre la dovuta attenzione alla provenienza dei cibi che ingeriamo dovrebbe diventare uno dei criteri di scelta della nostra spesa. Il nostro corpo, a partire dal palato, ce ne sarà grato.

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