Questo articolo costituisce la trascrizione, successivamente riaggiornata in qualche breve punto, dell'incontro “Epidemie e Omeopatia” tenutosi a Firenze, nei giorni immediatamente precedenti alla conclamazione di quarantena obbligatoria. Lo pubblichiamo adesso solo per ragioni logistiche, stimandone l’efficacia, per il tema e le considerazioni esposti, anche dopo queste settimane.
Con questo incontro non ho l’intenzione, la presunzione e neppure gli strumenti adatti per potervi dire qual è la soluzione omeopatica per questa epidemia; l’unica cosa che ritengo utile è stimolare una riflessione sul momento che tutti stiamo condividendo e affrontando, attraverso una lettura omeopatica.
È un momento insolito, che ci chiama ad avere comportamenti insoliti, cambiare abitudini e modalità di relazione: non mi sono mai ritrovato in una sala con persone sedute così distanziate se non per fare degli esercizi e delle esperienze particolari. Forse è quello che ci potrebbe comunicare questo momento: fare un’esperienza particolare.
Parlerò pochissimo dell’Arsenicum, capirete da soli quanto possa essere utile o meno parlare in questi termini, ma comunque qualcosa dirò.
Anche se la maggior parte di voi è un paziente omeopatico, o ha utilizzato nel corso della sua vita rimedi omeopatici, penso sia sempre importante e necessario avere le basi chiare: quindi voglio ricordare che ci sono dei principi, che devono essere presenti e ricordati nei momenti in cui si fa Omeopatia (sia quella fatta attraverso la prescrizione di un medico o anche semplicemente nell’osservazione di una situazione con l’intento di trasformarla in salute).
Tutti voi sapete che Omeopatia vuol dire il simile che cura il simile ed è in genere l’unica cosa che si ricorda. Però, perché si possa parlare di Omeopatia è necessario considerare altri tre principi:
- il primo fra questi è la dose infinitesimale, cioè quello che si fa con le diluizioni.
- il principio dell’individualizzazione
- il principio della totalità.
Il principio dell’individualizzazione è la procedura che gli omeopati mettono in atto durante le consultazioni: quelle domande, principalmente aperte, volte a far esteriorizzare le vostre peculiarità e il linguaggio attraverso il quali ognuno di noi esprime il proprio punto di vista e la propria posizione nel mondo.
Quindi i principi fondamentali in Omeopatia sono questi quattro: similitudine, individualizzazione, totalità dei sintomi, dose infinitesimale; per poter parlare di cura omeopatica devono essere rispettati tutti contemporaneamente.
Durante la malattia si parla attraverso dei sintomi, ovvero il linguaggio del malessere e del disagio che nasce dalla posizione che occupiamo in quel momento. E quindi l'Omeopata, cercando le peculiarità, rivolge domande come “in che condizione stai meglio o peggio? Che tipo di sensazione di dolore senti?” per cercare di identificare qual è la peculiarità di espressione della persona e quindi il suo modo individuale di interpretare la vita durante la malattia. Questo modo individuale di interpretare la vita e i sintomi attraverso i quali questo si mostra, si cerca di osservarli nella relazione che hanno tra di loro, prima li osserviamo e li indaghiamo singolarmente, poi cerchiamo di osservarli nella loro correlazione per dare un quadro che abbia una sintesi e un senso, una coesione. Questi due aspetti, in continua tensione dinamica, sono il principio dell'individualizzazione e il principio della totalità. Spiego ciò perché per poter arrivare al concetto di epidemia bisogna aver chiari questi principi di base attraverso i quali, con la filosofia e la pratica omeopatica, cerchiamo di osservare la realtà.
Adesso stiamo vivendo tutti una situazione acuta: una malattia acuta per definizione è una malattia che ha una sua origine chiara, una rapida evoluzione ed una risoluzione altrettanto rapida con la guarigione oppure con la morte. Questa condizione si manifesta ad un certo punto, inserendosi sullo stato di costante relativo benessere o malessere, che è il nostro stato quotidiano o come si dice in Omeopatia la nostra malattia cronica. Ad un certo punto si percepisce un cambiamento: si identifica un inizio, si ha l’apice della sintomatologia, poi una regressione che può portare alla guarigione completa o alla morte. Questa è la malattia acuta.
Questo cerchio che ho disegnato è il nostro stato ideale di salute, cioè la situazione in cui ci troviamo nel centro esatto e quindi abbiamo tutto a portata di mano, in equilibrio con l’interno e l’esterno: qualsiasi cosa, quindi, è equidistante. Questo tuttavia è l’ideale non umano, non reale.
Ognuno di noi invece occupa una diversa parte di questo cerchio, che rappresenta la nostra potenzialità ideale, vive una parte di sé stesso, una parte del proprio essere.
Quello che succede è che la vita, non essendo fortunatamente statica, ci presenta continuamente degli stimoli con cui l’ambiente esterno ci stuzzica e quindi, ad un certo punto, succede che qualcosa dall’esterno ci induce a cambiare il nostro punto di vista.
Vi dico questo perché una tra le intuizioni più interessanti, intense e generatrici di salute del creatore dell’Omeopatia, Samuel Hahnemann, è quella di estendere l’approccio omeopatico di osservazione e cura della malattia acuta del singolo individuo anche alla collettività che in un certo momento e in un certo spazio sta affrontando una malattia acuta collettiva, cioè una malattia epidemica.
È interessante, tuttavia, dal punto di vista omeopatico poter scambiare delle idee partendo da questa metodologia. Così ho iniziato a pensare a quali sono le caratteristiche di questo momento che tutti stiamo vivendo in prima persona, anche se la sensibilità individuale è molto più forte e ha a che fare con le proprie fragilità.
Emma Pistelli, nel suo intervento precedente, ricordava che il virus è un organismo non vivente in autonomia, un parassita che ha bisogno di qualcun altro per poter vivere, fatto di una natura impersonale. Non è un batterio, che è una cellula con dei confini definiti: diversa è, quindi, la sua capacità di superare i limiti e le barriere. Questa è un po’ la peculiarità del nostro tempo, secondo me, nel momento in cui c’è stata negli ultimi anni una grandissima attenzione e fragilità rispetto al sentimento del confine. Questo ci ha portato in realtà all’esatto opposto: il virus infatti passa attraverso i confini ed è questa la sua particolarità.
Ho pensato, quindi, che la nostra fragilità possa essere in questo momento rappresentata dal senso del confine: oggi siamo tutti separati. Per quanto condividiamo e cerchiamo di rispettare delle norme in questa fase acuta e sconosciuta, lasciamo anche alla paura la possibilità di elargire degli stimoli per cambiare il nostro punto di vista. Siamo tutti separati, il confine del nostro corpo e l’attività di relazione sta cambiando ed è già cambiata tantissimo: quindi, l’espressione che stiamo vivendo è quella dell'isolamento.
È importante riflettere sul concetto di confine, di barriera, di prigione: ognuno di noi è come se vivesse una prigione, cambiano i confini e cambia la prigione.
Non ci sono risposte perché lo scopo della salute e della guarigione, a mio avviso, non è di dare risposte ma di stimolarne una propria.
E quindi proporrei di sfruttare l'espressione di questa malattia acuta collettiva per osservare quanto il modello autoritaristico, verticale, assolutistico possa essere messo in discussione e magari favorire un'integrazione, di questa nostra attitudine naturale, con un approccio più “orizzontale” o meglio trasversale, in cui ognuno può essere consapevole delle proprie scelte e parte attiva della relazione. Ma per fare questo è necessario un processo attivo di trasformazione.
Con Simona Mezzera, prima del Covid-19, attraverso un lavoro di analisi e studio ci confrontavamo sull’influenza di quest'anno, condividendo il fatto che quest’anno un vero inverno non c’è stato: è stato caldo e senza pioggia. In inverno stiamo in casa, ci difendiamo dal freddo, si hanno delle relazioni più circoscritte, non si viaggia e non andiamo al mare a incontrare un milione di persone, ci avviciniamo al focolare di casa (per fare una metafora). Quest’anno tutto questo non è successo, secondo natura, però lo stiamo facendo adesso in maniera forzata: stiamo infatti vivendo un inverno di isolamento forzato, come se questo momento naturale, che è stato un po’ bypassato in maniera “perversa”, ora lo viviamo comunque in modo artificiale.
Quindi, ho pensato che oltre a osservare gli aspetti meno piacevoli di questo momento, potrebbe essere utile utilizzare questo approccio per stimolare una riflessione che ci possa portare a una guarigione sfruttando questo momento di crisi. Detto tutto questo vi inviterei, proprio a partire da questa dinamica, a riflettere sulle cose di cui abbiamo parlato: il senso del confine e la differenza tra il confine, la barriera e il limite in questo modello autoritario e verticale in cui ciascuno di noi (nessuno escluso) è immerso e contribuisce ad alimentare.
Viviamo la nostra vita un po’ su questo confine, con questa conflittualità e violenza verbale degli ultimi tempi e con questo bisogno di vivere e difendere i confini e limiti in ogni senso e la percezione di essere invasi, e in questo momento particolare, contagiati. Il bisogno di dare così tanta attenzione ai nostri confini è rappresentato in questo momento dal bisogno di identificare il proprio essere attraverso lo scontro, cioè io conosco me stesso e i miei confini soltanto se li faccio sbattere contro qualcosa o qualcuno: mi sembra evidente che ci sia sempre questo bisogno di conflitto (parlo per la popolazione generale) per trovare la propria identità ed è come se fossimo tutti sulla superficie di noi stessi, sul nostro confine. Perciò nella risposta conflittuale all’esterno troviamo noi stessi: questo è il senso del confine per me.
Una via diversa, una terza via, può essere quella di osservare queste peculiarità per poterne vedere la fluidità. Senza schierarsi con un lato o con l’altro, senza dire per esempio “sono tutti pazzi quelli del sistema sanitario che vogliono isolarci tutti” oppure “dobbiamo fare isolamento, altrimenti è pericolosissimo”, credo che dovremmo trovare un equilibrio dinamico e fluido tra queste due istanze che sono in ognuno di noi. Io la sento tanto la compresenza di queste sollecitazioni, il pregiudizio che ci limita nei confini e ci spinge a chiudersi, la fazione, l’idea di doversi schierare e di avere la verità in mano e di avere, quindi, necessariamente un conflitto.
Potrebbe essere utile trovare un tempo di silenzio: è vero che durante la malattia acuta il tempo di reazione deve essere veloce e che quindi dobbiamo stare al passo con i mutamenti rapidi delle circostanze, ma al contempo è importante anche mantenere sempre presente l’idea di base che c’è una totalità più ampia di noi, che è la vitalità stessa e la vita stessa che c’era prima di noi esseri umani e che verosimilmente ci sarà anche dopo l’estinzione dell’essere umano. Sviluppare l’umiltà ed eliminare quindi la presunzione di essere verticali sempre.
Possiamo evitare, possiamo prendere i farmaci per mandare via la febbre e antibiotici (sacrosanti se volete), sta a noi la scelta, c’è la possibilità dell’una e dell’altra, per questo mi sento di ricordare che ci sono entrambe le potenzialità, questa è la strada più faticosa: la febbre è fatica, richiede presenza, sacrificio, rinuncia con scelta e consapevolezza.
Con questo non voglio dire che dobbiamo avere più malattie acute possibile per rientrare in salute. La malattia acuta comporta sempre un sacrificio e una fatica, perciò rappresenta una direzione di guarigione ma imposta dalla vita, che ci chiede qualcosa in cambio (o qualcuno).
Se riusciamo ad osservare queste dinamiche e riusciamo a cavalcarle e utilizzarle, per percorrere attivamente e volontariamente il percorso della guarigione, della scoperta e integrazione dei nostri lati oscuri ed esclusi, allora non avremo bisogno della malattia acuta.
Questo è anche lo scopo della cura omeopatica. Però nel momento in cui la malattia acuta è già presente, si è già manifestata, almeno possiamo rispettarne il ruolo e sostenerne il percorso, piuttosto che concepirla come un nemico da sconfiggere... per l'ennesima volta.
Siamo noi stessi il motore della malattia, perciò considerarla come un nemico è fare violenza contro noi stessi. Questo è un momento di cura e non un momento di guerra.
Lo vediamo anche nel modello narrativo che va per la maggiore quando si parla di salute e malattia. Durante questa epidemia si sprecano i riferimenti a immagini di guerra, anche il lessico utilizzato dai mass media è lo stesso di quello che si usa durante un periodo di guerra. Ancora confini, scontro, vincere, verticalità.
La cura invece è un movimento orizzontale, silenzioso, rispettoso. Un incontro tra esseri simili. Tra simili totalità individuali. Questo è il principio della cura omeopatica, ma è anche un'attitudine naturale dell'essere umano. Basta fare silenzio per poterla sentire. E questo è il principio della dose infinitesimale, la diluizione ripetuta che fa gradualmente sparire i confini della cruda materia e permette la comparsa silenziosa delle virtù trasformative. Credo che dovremmo imparare a riconoscersi l'un l'altro, con un silenzio fatto di intensità e presenza, come simili totalità individuali, per poter aver accesso anche a quella porzione di mistero che ci anima tutti.
Quindi si può, sulla base di questa spinta, rinchiudersi sempre di più o non curarsi della situazione ed esporsi con leggerezza; oppure si può pensare “prima o poi potrò incontrare questa situazione, questo virus…”, ma credo comunque che cambiare punto di vista ci possa permettere di avere un’osservazione diversa. Per esempio, se i bambini non vengono colpiti, impariamo da loro, forse non hanno suscettibilità per questa malattia collettiva. Quali sono le cose positive? Troviamole. Non poniamo l’attenzione soltanto su chi è malato, ma magari anche su chi è in salute. Aumentiamo la polarità opposta per bilanciare lo squilibrio. Investiamo tempo, spazio e attenzione verso la salute e l'armonia. L’interruzione della scuola ci dà la possibilità di avere i bambini a casa, che sono i più sani e nel concetto di limiti e confini hanno tanto da insegnare agli adulti.