Circa 13.000 anni fa, un ignoto (e non so quanto benemerito) uomo (o donna?) in un luogo imprecisato del pianeta ha scoperto che le piante nascono dai semi e che l’intero processo biologico è controllabile; in breve tempo le comunità di cacciatori-raccoglitori sono stati relegati in spazi sempre più esigui del pianeta e l’avvento dell’agricoltura ha cambiato radicalmente le condizioni di vita dell’uomo. Se da un lato lo stoccaggio e la conservazione dei raccolti hanno portato un probabile miglioramento delle condizioni di vita della nostra specie, certamente hanno causato anche, attraverso l’accumulo di risorse, il potere di alcuni e lo sfruttamento di molti. Comunque, a partire da allora è iniziato un processo di “selezione genetica” delle piante coltivate che nel corso dei millenni ha portato ad un’alta specializzazione di ogni territorio: si coltiva l’olivo nei paesi mediterranei, il riso dove c’è ampia disponibilità di acqua, orzo e avena nei climi più freddi; ma ancora più specificamente, ogni piccola comunità nel suo rapporto costante con le risorse, il microclima, le particolarità del terreno del proprio territorio ha perseguito una evoluzione genetica delle specie coltivate (e allevate) e un accumulo di informazioni ed esperienze sulle modalità di coltivazione e sulle proprietà delle piante. Questo processo è naturalmente molto lento perché ogni sperimentazione richiede molti anni di verifica e adattamento, ma ha il grande vantaggio di inserirsi nell’ambiente circostante in maniera sostenibile. Altro fattore importante di questo tipo di sviluppo è la necessaria collaborazione di vicinato: non si fonda cioè sull’intuizione geniale o sulla ricerca di laboratorio, ma sullo scambio costante di informazioni tra agricoltori che operano sullo stesso territorio. Questo approccio, che ha garantito la vita e lo sviluppo dell’umanità per millenni, sta rischiando di essere distrutto in breve tempo dagli effetti perversi dell’agricoltura industriale. Il metodo industriale prescinde dalle condizioni ambientali in cui opera: la fertilità del suolo e la competizione con piante spontanee sono affidate all’uso massiccio dei prodotti chimici, le sementi vengono fornite da poche multinazionali che diffondono su tutto il pianeta poche specie coltivate, l’irrigazione massiccia impoverisce la disponibilità della risorsa idrica. Inoltre l’alta produttività agricola concentrata in alcune aree del pianeta provoca meccanismi politico-economici paradossali: il sostegno pubblico ad alcune coltivazioni e la distruzione delle eccedenze per evitare la diminuzione dei prezzi, aiuti alle esportazioni dei paesi ricchi e distruzione delle fragili economie locali dei paesi poveri. Così, magari col pretesto della lotta alla fame nel mondo o del sostegno allo sviluppo dei paesi poveri, l’agricoltura industriale, sostenuta dai piani di sviluppo della Banca Mondiale e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio occupa parti sempre più consistenti delle aree coltivabili. I meccanismi economici e politici che rendono possibile questo passaggio sono molto complessi, e non sono il tema di questo intervento. Quello che voglio invece sottolineare sono i problemi legati alla “omologazione” delle produzioni agricole. Innanzitutto il problema della fame è ben lungi dall’essere risolto: a fronte di un aumento della produttività, si verifica un sempre maggiore divario tra i pochi che dispongono di grandi ricchezze e l’aumento del numero di coloro che non hanno accesso alle risorse primarie: cibo e acqua. Molti piccoli proprietari terrieri del sud del mondo, dall’India al Sud America, non hanno retto il confronto con i metodi dell’agricoltura industriale e, in pochi anni, si sono prima indebitati, poi hanno dovuto vendere i loro terreni; eclatante il numero dei suicidi dei contadini Indiani che non hanno trovato altro modo di reagire alla vergogna del loro fallimento. L’agricoltura su larga scala non si preoccupa delle esigenze locali: sceglie sempre coltivazioni che siano vendibili sul mercato globale. I capitali generati da questo commercio raramente sono reinvestiti nelle economie locali; in questo modo, oltre a privare le popolazioni più deboli del terreno necessario al loro sostentamento, si genera anche uno spostamento di risorse finanziarie dai paesi poveri verso quelli ricchi. Ma non è solo una questione di soldi: mentre da una parte si perde quel patrimonio di conoscenze legate al lento progresso del territorio (arricchimento delle varietà coltivate, migliore conoscenza delle proprietà delle piante spontanee e del loro utilizzo, equilibrio nell’uso delle risorse disponibili), dall’altra poche società si attrezzano per controllare e sfruttare la proprietà intellettuale delle sementi imposte a livello globale e di tutte le piante utilizzabili commercialmente, attraverso il sistema dei brevetti. Non ultimo l’aspetto sanitario: non è necessario essere convinti macrobiotici per cogliere l’importanza del consumo di prodotti alimentari diversi ma maturati nel territorio e nella stagione in cui si vive. L’agricoltura industriale e soprattutto il sistema distributivo dei prodotti alimentari, avendo come fine il maggiore consumo possibile di beni, riempie il nostro immaginario (e le nostre dispense) di prodotti sempre nuovi provenienti da luoghi sempre più lontani da noi, dandoci l’illusione di poter scegliere tutto, ma negandoci in realtà la possibilità di accedere semplicemente ai prodotti del nostro territorio se non a costo di inenarrabili peripezie; prodotti locali che comunque in gran parte non esistono più perché perversi meccanismi economici hanno spinto gli agricoltori a specializzarsi in poche presumibilmente meglio remunerate coltivazioni. Invertire questa tendenza apparentemente inarrestabile è non solo possibile, ma necessario. I momenti di crisi rappresentano spesso il trampolino ideale per i cambiamenti radicali. Un caso concreto: fino agli anni ’90 l’agricoltura cubana era legata all’Unione Sovietica sia per l’esportazione dei propri prodotti (canna da zucchero, tabacco) sia per l’importazione di pesticidi e fertilizzanti. Alla caduta del muro e alla conseguente crisi economica sovietica, vittima del boicottaggio commerciale dei Paesi Occidentali, il sistema agricolo “industriale” basato sulla monocoltura è crollato e Cuba ha dovuto reinventare (suo malgrado!) un’agricoltura sostenibile adottando la rotazione delle colture, la lotta biologica, aumentando la diversità delle specie coltivate, e soprattutto tornando a coltivare prodotti utili al consumo locale e non solo per l’esportazione. Uno degli effetti benefici di questa rivoluzione sta proprio nella riappropriazione da parte dei contadini (cioè di chi lavora la terra) delle competenze necessarie alla conduzione del podere, a scapito dei tecnici che nel resto del mondo compiono scelte teoriche e mai condivise.