Quando si verificano eventi tragici come quello del recente tifone Haiyan nelle Filippine, sappiamo che alle loro spalle, e alle nostre, si aggira un processo in atto nell'ecosistema mondiale: il cambiamento climatico. Esso si manifesta attraverso fenomeni di squilibrio degli ecosistemi1, come appunto i cosiddetti "eventi estremi" (uragani di dimensioni eccezionali, bombe d'acqua, siccità), ma anche con processi più lenti e nascosti, ma costanti, come la riduzione della varietà di specie animali e vegetali. Tali fenomeni avvengono come conseguenza dell'innalzamento della temperatura terrestre. Innalzamento che è dovuto all'azione dell'uomo, ovvero alla continua immissione di CO2 nell'atmosfera, iniziata circa alla metà del 1700 con l'industrializzazione e tuttora in corso. Su tale rapporto causale la letteratura scientifica è concorde, come è stato ribadito anche nell'ultimo rapporto2 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change, l'organismo delle Nazioni Unite dedicato appunto ad accertare lo stato delle conoscenze scientifiche in materia.
La conseguenza più immediata che se ne può trarre è che, se l'azione dell'uomo ha creato il problema, la stessa azione dell'uomo potrebbe risolverlo. La riflessione può sembrare scontata ma non lo è, poiché è tramite questa che il cambiamento climatico acquista una dimensione politica, che coinvolge cioè l'agire umano nella società per il bene dell'intera comunità.
La posta in gioco è elevata poiché, oltre ai disastri evidenti causati da eventi estremi, si prevedono come conseguenze dell'innalzamento delle temperature: sommersione di aree costiere, espansione delle aree desertiche, perdita di specie animali, tutti fenomeni che potranno aggravare situazioni già esistenti di malnutrizione, malattie e migrazioni dovute alla mancanza di terre coltivabili.
La comunità internazionale ha risposto a tali minacce già dagli anni '90 del secolo scorso, dando vita ad un regime internazionale, costituito dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, firmata a Rio nel 1992, e dal protocollo di Kyoto (1997), che hanno come scopo quello di contenere l'aumento della temperatura globale, riducendo le emissioni totali dei sei gas ad effetto serra del 5% (in media) al di sotto dei livelli del 1990, nel periodo tra il 2008 e il 2012.
Gli Stati che sono parti della Convenzione e del Protocollo (ma non tutti gli Stati che sono parti della Convenzione sono anche parti del Protocollo: per esempio illustri assenti nel Protocollo sono gli Stati Uniti) si riuniscono ogni anno in una conferenza mondiale, con lo scopo di monitorare gli impegni esistenti e, soprattutto, di prenderne di nuovi per il futuro.
Recentemente si è conclusa la 19° Conferenza delle Parti della Convenzione (e la 9° Conferenza delle Parti che sono anche Membri del Protocollo) tenuta a Varsavia. Come ogni anno vi erano aspettative superiori rispetto a quanto è stato effettivamente deciso, tanto che ad un certo punto dei lavori, quando ormai da giorni le discussioni non portavano a conclusioni soddisfacenti, le organizzazioni rappresentanti della società civile hanno abbandonato la Conferenza in segno di protesta3. La troppa vicinanza dei governi alle lobbies industriali e il ripensamento di molti paesi sviluppati riguardo ai loro impegni di riduzione delle emissioni hanno spinto le Ong, le organizzazioni ambientaliste, i sindacati e le associazioni di donne e di giovani a riconsegnare i loro accreditamenti e ad abbandonare i lavori.
Il risultato principale della conferenza di Varsavia è stato quello di "mantenere i governi in pista per l'accordo sul clima del 2015", come si legge nella nota ufficiale di chiusura della Conferenza4: ovvero si è rimandata la possibilità di un accordo alla Conferenza di Parigi, che si terrà nel 2015, e alle trattative che la precederanno. I singoli governi, a livello nazionale, dovranno lavorare su un testo-bozza per un nuovo accordo universale sul clima da firmare a Parigi nel 2015: ogni parte dovrà dare il suo contributo nazionale all'accordo, e potrà farlo fino al primo quarto del 2015. L'accordo dovrà entrare in vigore nel 2020.
Altre decisioni sono state prese, ma complessivamente riguardano questioni non cruciali, o se le riguardano, le determinazioni prese sono ancora a uno stadio troppo astratto. Per esempio è stato deciso di creare un meccanismo internazionale per proteggere le popolazioni più vulnerabili contro le perdite e i danni causati dagli eventi estremi e per rallentare eventi come l'innalzamento del livello del mare (Warsaw international mechanism for loss and damage). E' iniziata la raccolta di fondi per riempire il Green Climate Fund ed i paesi sviluppati sono stati invitati a contribuire. E' stato creato il Warsaw Framework for REDD+: un insieme di decisioni sulle modalità di aiuto ai paesi in via di sviluppo per ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste, che contano circa un quinto di tutte le emissioni generate dall'uomo.
Tutto ciò è espressione dei compromessi raggiunti dalle diplomazie internazionali e appare molto lontano dalla sostanza dei problemi. Inoltre risultano velate le posizioni, e soprattutto i conflitti, che vi sottostanno. Per cogliere tale complessità è importante invece delineare i principali problemi aperti nei negoziati internazionali.
In primo luogo: gli accordi di riduzione delle emissioni. Quali obiettivi porsi? La Convenzione quadro, insieme al Protocollo di Kyoto, che è stato in vigore dal 2008 al 2012, hanno stabilito obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 per ogni Stato sviluppato partecipante. La distinzione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo è stata adottato dalla Convenzione per riconoscere il principio delle responsabilità comuni, ma differenziate, nell'affrontare il cambiamento climatico, e quindi per riconoscere obblighi di riduzione solo a carico dei paesi sviluppati.
Il Protocollo di Kyoto si trova attualmente in una sorta di regime di proroga, detto "secondo periodo di attuazione", che è stato deciso nella Conferenza di Doha nel 2012, attraverso un emendamento al Protocollo, tuttavia non ancora ratificato, che serve a traghettare il regime di Kyoto verso il nuovo accordo che si prevede di negoziare a Parigi nel 2015. Su quest'ultimo si stanno appunto svolgendo i negoziati nell'ambito della Piattaforma di Durban e adesso a Varsavia: si prevede che entri in vigore nel 2020 e che sia un protocollo, un accordo, o altro strumento giuridicamente vincolante applicabile a tutte le parti. Sul futuro accordo di Parigi le Parti che sono grandi emettitori di CO2 (per prime Australia e Giappone) si stanno di fatto tirando indietro rispetto a quanto annunciato.
In secondo luogo, e direttamente legata al primo punto, vi è la questione di quali siano gli Stati che dovranno ridurre le emissioni: solo i cosiddetti paesi industrializzati, in ottemperanza al principio delle responsabilità comuni ma differenziate, oppure anche quei paesi (la Cina in testa), cosiddetti emergenti, che hanno negli ultimi anni aumentato in modo esponenziale le loro emissioni e si avviano a diventare i più grandi inquinatori dei prossimi decenni, ma che non hanno responsabilità per l'inquinamento "storico" e che rivendicano un benessere più elevato?
La Piattaforma di Durban prevede che tutti i paesi, sia sviluppati che non, prendano impegni di riduzione delle emissioni, ma durante la Conferenza di Varsavia è emersa la posizione di un gruppo (like-minded countries) che include Cina, India (paesi dipendenti dal combustibili fossili) Arabia Saudita, Venezuela, Malaysia (paesi ricchi di petrolio) che rivendica l'applicazione della distinzione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, e la non applicabilità a questi ultimi di obblighi di riduzione. Unione europea e Stati Uniti, al contrario, ritengono irrinunciabile che paesi che sono divenuti grandi emettitori si prendano impegni di riduzione nel prossimo futuro e che la distinzione tra paesi sviluppati e in via di sviluppo sia superata dai fatti5.
In terzo luogo, la discussione resta aperta riguardo alle modalità attraverso le quali arrivare alla riduzione delle emissioni: in particolare si tratterà di decidere (e la Conferenza di Varsavia non lo ha fatto) quale ruolo avranno nel nuovo regime i cosiddetti meccanismi di mercato, creati con il protocollo di Kyoto per rendere più facile la riduzione delle emissioni.
Si tratta di strumenti attraverso i quali si creano crediti di carbonio, che possono essere venduti nel mercato delle emissioni. I crediti sono creati attraverso la realizzazione di progetti in paesi in via di sviluppo o nei paesi cosiddetti in transizione ad un'economia di mercato (ex-socialisti), o direttamente nei paesi industrializzati: si tratta dei progetti più vari, soprattutto legati al miglioramento energetico degli edifici, ma anche alla gestione delle foreste, o alla produzione di biocarburanti, la cui bontà è certificata da entità di certificazione. La logica che li guida è quella che, per una grande industria che inquina nei paesi sviluppati può essere meno costoso comprare diritti di emissione o realizzare un progetto in un altro paese, piuttosto che ridurre direttamente le emissioni del proprio stabilimento.
La reale efficacia di tali progetti nel ridurre complessivamente le emissioni globali è però tutta da stabilire. Sia perché nell'approvazione di tali attività sembra sia prevalso un approccio settoriale e non ecosistemico, che ha privilegiato sistemi, come i biocarburanti che forse possono ridurre le emissioni di CO2, ma a scapito di altri bisogni che non vengono più soddisfatti dall'ambiente naturale. Sia perché la crisi economica e finanziaria globale degli ultimi anni ha messo in crisi tali meccanismi, facendo scendere le emissioni a causa della minore produzione e di conseguenza facendo calare i prezzi dei crediti di emissione. E' stata così messa in luce la fragilità di tali meccanismi legati a variabili non controllabili a livello globale. Tuttavia la Conferenza delle parti, e soprattutto i paesi sviluppati, continuano a sostenere tali meccanismi. I paesi in via di sviluppo, al contrario spingono per politiche di riduzione realizzate direttamente dagli stati obbligati6.
In quarto luogo bisogna evidenziare come la giustizia sia una tematica trasversale alla questione climatica: giustizia tra i paesi con diversi gradi di sviluppo, giustizia tra le generazioni, tra i popoli (partecipazione dei popoli indigeni) e di genere.
In conclusione si possono fare alcune valutazioni riguardo al regime internazionale del clima. Gli strumenti che esso prevede attualmente hanno pregi e difetti.
Difetti sono soprattutto dei meccanismi di mercato, la mancata scelta a favore di energie realmente alternative e di un approccio ecologico, mentre un pregio di tali meccanismi è la possibilità che il mercato, se indirizzato bene, stimoli l'innovazione e la crescita della cosiddetta green economy.
Nonostante gli scarsi risultati dei negoziati, la costruzione dell'immensa burocrazia ONU ha permesso di creare uno spazio di discussione e di attenzione alla tematica del cambiamento climatico, e con esso agli equilibri ecologici del pianeta, in passato non immaginabile. Così come da non sottovalutare infine è il fatto che la firma di convenzioni e impegni a livello ONU, pur se scarsamente coercitiva nei confronti degli Stati, almeno al momento attuale, e tanto meno degli individui, ha una forte influenza sulle coscienze e può stimolare mutamenti culturali nell'approccio all'ambiente.
Note
1 Si veda Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-Being, 2005, disponibile on-line alla pagina http://www.millenniumassessment.org/en/index.aspx
2 Working Group I Contribution to the IPCC Fifth Assessment Report - Climate Change 2013: The Physical Science Basis, disponibile on-line alla pagina http://www.ipcc.ch/report/ar5/wg1
3 Si veda John Vidal and Fiona Harvey, Green groups walk out of UN climate talks, theguardian.com, Thursday 21 November 2013, pagina http://www.theguardian.com/environment/2013/nov/21/mass-walk-out-un-climate-talks-warsaw
4 http://www.unfccc.int/files/press/news_room/press_relea-ses_and_advisories/7application/pdf/131123_pr_closing_cop19.pdf
5 Si veda Fiona Harvey, Warsaw climate talks set 2015 target for plans to curb emissions,theguardian.com, Sunday 24 November 2013, pagina http://www.theguardian.com/environment/2013/nov/24/warsaw-climate-talks-greenhouse-gas-emissions
6 Si veda http://www.iisd.ca/climate/cop19/enb Bollettino n. 594, p.8
A leggere molte delle cifre dell’attuale crisi economica secondo le teorie della decrescita¹, dovremmo rallegrarci non poco.
La prima vittima, in ordine cronologico, è stato il sogno di poter generare infinita ricchezza attraverso la speculazione finanziaria. Pur senza conoscere e capire bene i sofisticati meccanismi di “subprime” e “derivati”, anche il più ingenuo e sprovveduto cittadino ha compreso che affidare i propri risparmi a istituti finanziari nella speranza che questi, attraverso incomprensibili e quasi magiche operazioni, restituiscano importi maggiorati e rendite sicure, è un bluff. Nella migliore delle ipotesi è un gioco sporco in cui, per ognuno che “guadagna”, ci sono altri che perdono. L’uso del denaro per fini totalmente avulsi da qualsiasi contesto territoriale o produttivo ha perso qualsiasi credibilità; e questo è sicuramente un punto per coloro che hanno sempre sostenuto l’importanza di un’economia al servizio delle persone e del soddisfacimento delle esigenze; negli ultimi anni, senza averne piena consapevolezza, ci siamo abituati ad un’economia globalizzata e avvitata su se stessa, sempre più incapace di sostenere le attività produttive; dunque, il crollo di questo sogno non può essere accolto che come un risveglio.
Ma, mentre ancora facciamo fatica a comprendere appieno la fine di questo sogno, con toni di grande tragedia ci viene quotidianamente sottoposto il “problema” del calo dei consumi; in una società ingolfata da una produzione eccessiva di merci, dove è necessario indurre i consumi attraverso costose e sofisticate campagne promozionali, dove la quantità di rifiuti genera problemi enormi, dove l’infelicità insita nel possesso di beni subito obsoleti è palese... perché non dovremmo rallegrarci per una modesta riduzione dei nostri “sprechi”?
Come Serge Latouche ha brillantemente spiegato, la crescita infinita è insostenibile. Un sistema che basa il suo futuro sulla necessità di consumi in eterna crescita è semplicemente destinato al collasso perché l’ambiente in cui viviamo ha limiti abbastanza precisi in termini di risorse; secondo studi sull’impronta ecologica², l’umanità ha superato già da tempo il limite di consumi imposti dai tempi di rinnovamento delle risorse del nostro pianeta e sta intaccando progressivamente le disponibilità per le prossime generazioni.
Eppure, la nostra società accoglie con sempre maggiore angoscia l’evoluzione di questa crisi che, ogni giorno di più, ci appare senza soluzione. Di fronte all’impellenza della disoccupazione, della precarietà, della perdita di diritti appare fuori luogo ragionare in termini di decrescita; quasi che la solidarietà sociale e il rapporto corretto con l’ambiente fossero lussi per società opulente. Al contrario, i criteri proposti dalla teoria della decrescita sembrano dare risposte precise ai problemi posti dall’attuale crisi economica: minori consumi, ma maggiore e più equa distribuzione della ricchezza; meno lavoro, ma più tempo per relazioni e cultura; meno competitività, maggiore solidarietà, sia a livello individuale che globale.
Di fronte a una situazione di crisi o malattia, ogni organismo può reagire in modi diversi: può rifiutarsi di prendere coscienza del proprio stato, sperare che tutto torni come prima, magari alienandosi in una condizione di iperattività, oppure può reagire cercando di comprendere l’origine del problema.
A noi la scelta.
¹ La scommessa della decrescita, S. Latouche, Feltrinelli, 2007
² L'impronta ecologica. Come ridurre l'impatto dell'uomo sulla terra, Mathis Wackernagel, William Rees, Milano, Ed. Ambiente, 2004
Supermercato, ora di punta. Nel traffico convulso dei carrelli, un'”isola” sembra ignorata: frutta e verdura da agricoltura biologica fanno mostra di sé ben impacchettati in asettici avvolgimenti. Un signore inforca gli occhiali e si immerge nella lettura di un'etichetta (le vere massaie non hanno tanto tempo da perdere) e, dopo attenta analisi, ripone con cura il pacchetto di pomodori nello scaffale e si perde nel flusso di consumatori. Come dargli torto? In inverno, quattro pallidi pomodori dalla pelle liscia, provenienza Olanda, non sono affatto invitanti.
Nessuno mette in discussione l'importanza dell'agricoltura biologica. Uso sostenibile del terreno agricolo, salvaguardia della risorsa idrica, salubrità e gusto nei cibi a tavola sono parametri essenziali della sostenibilità. Ma come può definirsi “biologico” un prodotto che porta nel bilancio energetico della sua origine uno spregiudicato consumo di combustibili fossili? Se possiamo transigere sulla meccanizzazione della produzione, diventa imbarazzante difendere il riscaldamento artificiale delle serre per non parlare del trasporto dai lontani paesi di produzione.
Naturalmente non è il cibo biologico che voglio demonizzare, ma tutti i prodotti, non solo agricoli, che vengono da molto lontano. Nel mondo del consumo globalizzato, la grande distribuzione di beni fa i conti costi-benefici secondo un unico e semplice criterio: il più alto profitto possibile. Magari preoccupandosi di nascondere questo modo d'agire dietro un pretestuoso contenimento dei prezzi: sono i consumatori che richiedono prodotti a basso prezzo e quindi, per non essere emarginati dalle dure leggi di mercato, si acquistano le merci là dove queste costano meno; e considerando anche il basso costo dei trasporti, vengono giustificate situazioni paradossali; non solo i pomodori olandesi, ma anche il succo di arancia importato dal Brasile, le fragole dalla Cina, le rose dalla Tanzania e così via. Apparentemente, queste attività creano occupazione e “sviluppo” in paesi poveri (o cosiddetti “in via di sviluppo”); ma di quale “sviluppo” si tratta? Sviluppo che impiega mano d'opera a basso costo per produzioni destinate unicamente al mercato estero, i cui profitti vanno principalmente a multinazionali che difficilmente li reinvestiranno nei luoghi di produzione. Inoltre, dal nostro punto di vista, è davvero nostro interesse risparmiare qualche centesimo sulla spesa pagandone poi i costi in termini di mancata occupazione locale e inquinamento legato ai trasporti intercontinentali?
Sottoposti dalla grande distribuzione a una continua sollecitazione all’acquisto di cibi di provenienza lontana, esotica, abbiamo in gran parte perso l'abitudine ai prodotti agricoli di stagione e di prossimità; molti di noi, specie fra i più giovani, non sanno più quando e dove crescono cavoli e melanzane. Non è necessario essere macrobiotici per intuire l'importanza per il nostro organismo di assumere cibi a noi vicini per luogo e stagione. La natura ci insegna che qualsiasi organismo vivente trova tutto ciò di cui ha bisogno in un ristretto ambito intorno a sé; l’equilibrio fra noi e il nostro ambiente si misura anche con la vicinanza ai luoghi di produzione dei cibi che ingeriamo. Non voglio dire che il consumo sporadico di cibi “esotici” sia necessariamente dannoso; semplicemente credo che bisognerebbe riacquistare una “quotidianità” fatta di prodotti locali e “di stagione”. Anche se, nel nostro mondo invaso dalle merci, il semplice alimentarsi in maniera naturale assume il senso di un vero atto rivoluzionario.
Che fare, dunque? Negli ultimi tempi la coscienza del problema si sta rapidamente allargando e si può ormai parlare di un vero “movimento km zero” che si organizza soprattutto attraverso i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale). Si tratta di gruppi di persone accomunati da vicinato e sensibilità al problema che stringe rapporti con piccoli produttori locali; una vera e propria rete distributiva autogestita che coniuga il giusto prezzo per piccoli produttori (altrimenti costretti a svendere le proprie produzioni a grossisti) con il diritto a nutrirsi con cibi sani e saporiti. Il contatto diretto tra produttore e consumatore responsabilizza entrambi: chi acquista dovrà costruirsi una competenza sulla reale qualità dei cibi, chi produce avrà un interesse concreto e diretto a mantenere alta la qualità dei suoi prodotti. Sul sito www.retegas.org è possibile trovare maggiori informazioni e contatti.
Ma anche se non in forma organizzata, porre la dovuta attenzione alla provenienza dei cibi che ingeriamo dovrebbe diventare uno dei criteri di scelta della nostra spesa. Il nostro corpo, a partire dal palato, ce ne sarà grato.
Generalmente si intende per debito generazionale l’ammontare dei debiti finanziari che una generazione non riuscirà a ripagare e quindi lascerà ai propri figli. Ad esempio, il debito pubblico e il deficit pensionistico. Ma il vero debito accumulato nei confronti delle future generazioni non è misurabile con un controvalore in denaro.
Una compulsiva ricerca di benessere basato sui consumi, unita a una crescente capacità tecnologica hanno condotto l’umanità negli ultimi 150 anni a depredare sistematicamente le risorse del proprio habitat (la Terra) ben oltre la sua capacità di rigenerazione.
Le riserve energetiche fossili (gas, petrolio), che si sono formate nel corso di milioni di anni, si vanno rapidamente esaurendo; anche nelle stime più ottimistiche, le scorte si esauriranno nel giro di pochi decenni¹. Certo possiamo sperare che il progresso tecnologico porti ad un maggiore sfruttamento di fonti alternative a quelle fossili e forse il nostro stile di vita non risentirà di questa crisi; ma intanto abbiamo immesso nell’atmosfera una tale quantità di CO2 che, anche se interrompessimo totalmente le emissioni, comunque il processo di alterazione dell’equilibrio climatico andrebbe avanti per secoli².
Il “consumo di territorio” procede a ritmo incalzante e ha toccato soglie di allarme. Parlando di consumo di territorio alludo a quelle aree sottratte non solo alla loro totale naturalità (terre non toccate dall’intervento dell’uomo), ma anche all’uso agricolo; quindi le aree cementificate, non più capaci di accogliere l’acqua piovana e immagazzinarla nelle falde sotterranee; non più capaci di ospitare quella ricchezza di forme di vita che proliferano in tutte le aree naturali.
La quantità abnorme di aree cementificate necessarie al nostro stile di vita molto difficilmente potrà tornare alla sua condizione originaria o almeno di sostenibilità. Il ciclo dell’acqua e la biodiversità: due pilastri della vita sulla terra vengono progressivamente compromessi dalle attività umane, ad uso e consumo delle presenti generazioni, a danno delle future³.
Ma non basta. Quantità crescenti di scorie nucleari, residui del ciclo di produzione di energia o di armi, vengono immagazzinate in depositi che non possono garantire la sicurezza per i tempi lunghi necessari alla riduzione di radioattività di questi materiali; tempi che coinvolgeranno centinaia di generazioni⁴.
La lista sarebbe ancora lunga: le armi, i prodotti chimici e sementi transgeniche, l’impoverimento delle forme di vita nei mari, la plastica, il debito pubblico... quasi ogni aspetto della nostra vita sembra improntato all’insostenibilità; ovvero a scaricare sulle future generazioni il costo del nostro benessere. E, come se non bastasse, l’idea dominante di progresso punta decisamente a peggiorare la situazione: crescita della produzione di beni e loro consumo, modello di sviluppo energivoro.
Sembrerebbe una strada senza uscita; e forse lo è davvero.
Ma sentirsi individualmente impotenti e schiacciati dal peso di tale situazione non aiuta a compiere scelte consapevoli. Se qualcosa cambierà nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente, questo cambiamento deve avvenire in primis sul piano antropologico.
Le stesse regole di convivenza, di rapporto con l’ambiente, le aspirazioni di benessere che hanno guidato l’uomo da sempre, diventano insostenibili se si avvalgono dell’enorme potenziale tecnologico della modernità.
Per questo sono convinto che oggi l’uomo debba mettere profondamente in discussione se stesso. Non conosciamo ancora le future modalità di convivenza sociali, né le consuetudini che regoleranno il rapporto con l’ambiente; ma certamente dobbiamo prepararci ad un cambiamento radicale.
Ritengo che l’atteggiamento “educativo” che ha guidato l’avvicendarsi delle generazioni, basato su un semplice passaggio di saperi, competenze, fondamenti morali debba cambiare profondamente. La natura ci insegna che nei momenti di crisi, nella ricchezza della biodiversità e nella diversità genetica certamente ci sono gli elementi per una rinascita della vita; proprio quegli elementi apparentemente “diversi” dalla norma, in una situazione di crisi ambientale possono rivelarsi gli unici in grado di adattarsi a profondi cambiamenti. Nello stesso modo, in un momento di profonda crisi antropologica in cui i valori fondamentali della società vanno rivisti, pena la possibile estinzione della specie, credo che formare individui dotati di senso critico, abituati ad alzare lo sguardo per guardare lontano, sia l’unico lascito possibile per i nostri figli.
Note bibliografiche
¹ Picco di Hubbert, Wikipedia
Richard Heinberg, La festa è finita, Fazi Editore
² V. Ferrara, A. Farruggia, Clima: istruzioni per l'uso, Edizioni Ambiente, 2007
³ C. Gardi, N. Dall'Olio, S. Salata, 2013. L'insostenibile consumo di suolo. Edicom Edizioni
⁴ Antonio Ruberti, Smaltimento delle scorie nucleari: un problema irrisolvibile, Umanità Nuova Edizioni
Circa 13.000 anni fa, un ignoto (e non so quanto benemerito) uomo (o donna?) in un luogo imprecisato del pianeta ha scoperto che le piante nascono dai semi e che l’intero processo biologico è controllabile; in breve tempo le comunità di cacciatori-raccoglitori sono stati relegati in spazi sempre più esigui del pianeta e l’avvento dell’agricoltura ha cambiato radicalmente le condizioni di vita dell’uomo. Se da un lato lo stoccaggio e la conservazione dei raccolti hanno portato un probabile miglioramento delle condizioni di vita della nostra specie, certamente hanno causato anche, attraverso l’accumulo di risorse, il potere di alcuni e lo sfruttamento di molti. Comunque, a partire da allora è iniziato un processo di “selezione genetica” delle piante coltivate che nel corso dei millenni ha portato ad un’alta specializzazione di ogni territorio: si coltiva l’olivo nei paesi mediterranei, il riso dove c’è ampia disponibilità di acqua, orzo e avena nei climi più freddi; ma ancora più specificamente, ogni piccola comunità nel suo rapporto costante con le risorse, il microclima, le particolarità del terreno del proprio territorio ha perseguito una evoluzione genetica delle specie coltivate (e allevate) e un accumulo di informazioni ed esperienze sulle modalità di coltivazione e sulle proprietà delle piante. Questo processo è naturalmente molto lento perché ogni sperimentazione richiede molti anni di verifica e adattamento, ma ha il grande vantaggio di inserirsi nell’ambiente circostante in maniera sostenibile. Altro fattore importante di questo tipo di sviluppo è la necessaria collaborazione di vicinato: non si fonda cioè sull’intuizione geniale o sulla ricerca di laboratorio, ma sullo scambio costante di informazioni tra agricoltori che operano sullo stesso territorio. Questo approccio, che ha garantito la vita e lo sviluppo dell’umanità per millenni, sta rischiando di essere distrutto in breve tempo dagli effetti perversi dell’agricoltura industriale. Il metodo industriale prescinde dalle condizioni ambientali in cui opera: la fertilità del suolo e la competizione con piante spontanee sono affidate all’uso massiccio dei prodotti chimici, le sementi vengono fornite da poche multinazionali che diffondono su tutto il pianeta poche specie coltivate, l’irrigazione massiccia impoverisce la disponibilità della risorsa idrica. Inoltre l’alta produttività agricola concentrata in alcune aree del pianeta provoca meccanismi politico-economici paradossali: il sostegno pubblico ad alcune coltivazioni e la distruzione delle eccedenze per evitare la diminuzione dei prezzi, aiuti alle esportazioni dei paesi ricchi e distruzione delle fragili economie locali dei paesi poveri. Così, magari col pretesto della lotta alla fame nel mondo o del sostegno allo sviluppo dei paesi poveri, l’agricoltura industriale, sostenuta dai piani di sviluppo della Banca Mondiale e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio occupa parti sempre più consistenti delle aree coltivabili. I meccanismi economici e politici che rendono possibile questo passaggio sono molto complessi, e non sono il tema di questo intervento. Quello che voglio invece sottolineare sono i problemi legati alla “omologazione” delle produzioni agricole. Innanzitutto il problema della fame è ben lungi dall’essere risolto: a fronte di un aumento della produttività, si verifica un sempre maggiore divario tra i pochi che dispongono di grandi ricchezze e l’aumento del numero di coloro che non hanno accesso alle risorse primarie: cibo e acqua. Molti piccoli proprietari terrieri del sud del mondo, dall’India al Sud America, non hanno retto il confronto con i metodi dell’agricoltura industriale e, in pochi anni, si sono prima indebitati, poi hanno dovuto vendere i loro terreni; eclatante il numero dei suicidi dei contadini Indiani che non hanno trovato altro modo di reagire alla vergogna del loro fallimento. L’agricoltura su larga scala non si preoccupa delle esigenze locali: sceglie sempre coltivazioni che siano vendibili sul mercato globale. I capitali generati da questo commercio raramente sono reinvestiti nelle economie locali; in questo modo, oltre a privare le popolazioni più deboli del terreno necessario al loro sostentamento, si genera anche uno spostamento di risorse finanziarie dai paesi poveri verso quelli ricchi. Ma non è solo una questione di soldi: mentre da una parte si perde quel patrimonio di conoscenze legate al lento progresso del territorio (arricchimento delle varietà coltivate, migliore conoscenza delle proprietà delle piante spontanee e del loro utilizzo, equilibrio nell’uso delle risorse disponibili), dall’altra poche società si attrezzano per controllare e sfruttare la proprietà intellettuale delle sementi imposte a livello globale e di tutte le piante utilizzabili commercialmente, attraverso il sistema dei brevetti. Non ultimo l’aspetto sanitario: non è necessario essere convinti macrobiotici per cogliere l’importanza del consumo di prodotti alimentari diversi ma maturati nel territorio e nella stagione in cui si vive. L’agricoltura industriale e soprattutto il sistema distributivo dei prodotti alimentari, avendo come fine il maggiore consumo possibile di beni, riempie il nostro immaginario (e le nostre dispense) di prodotti sempre nuovi provenienti da luoghi sempre più lontani da noi, dandoci l’illusione di poter scegliere tutto, ma negandoci in realtà la possibilità di accedere semplicemente ai prodotti del nostro territorio se non a costo di inenarrabili peripezie; prodotti locali che comunque in gran parte non esistono più perché perversi meccanismi economici hanno spinto gli agricoltori a specializzarsi in poche presumibilmente meglio remunerate coltivazioni. Invertire questa tendenza apparentemente inarrestabile è non solo possibile, ma necessario. I momenti di crisi rappresentano spesso il trampolino ideale per i cambiamenti radicali. Un caso concreto: fino agli anni ’90 l’agricoltura cubana era legata all’Unione Sovietica sia per l’esportazione dei propri prodotti (canna da zucchero, tabacco) sia per l’importazione di pesticidi e fertilizzanti. Alla caduta del muro e alla conseguente crisi economica sovietica, vittima del boicottaggio commerciale dei Paesi Occidentali, il sistema agricolo “industriale” basato sulla monocoltura è crollato e Cuba ha dovuto reinventare (suo malgrado!) un’agricoltura sostenibile adottando la rotazione delle colture, la lotta biologica, aumentando la diversità delle specie coltivate, e soprattutto tornando a coltivare prodotti utili al consumo locale e non solo per l’esportazione. Uno degli effetti benefici di questa rivoluzione sta proprio nella riappropriazione da parte dei contadini (cioè di chi lavora la terra) delle competenze necessarie alla conduzione del podere, a scapito dei tecnici che nel resto del mondo compiono scelte teoriche e mai condivise.