La storia del trauma psicologico attraversa la psicologia clinica fin dalle sue origini ma il tema dei danni psichici della guerra è presente fin anche in testi remoti quali l’Iliade.
E’ una storia di continue sommersioni e emersioni.
Nasce come nevrosi di guerra, nel momento in cui i clinici iniziarono a descrivere situazioni di morte da palla di cannone, dove non c’erano ferite.
Queste non furono più interpretate come causate dallo spostamento d’aria legato al colpo di cannone come si pensava precedentemente, ma come effetto di un trauma psicologico. Qualcuno inoltre iniziò a pensare diversamente rispetto a bollare i soldati come vigliacchi nei casi in cui si rifiutavano di andare a combattere e intuì che l’ottundimento psichico potesse essere l’effetto dei danni del combattimento.
Le osservazioni fatte però perdevano di interesse una volta passata la guerra.
A cavallo tra l’800 e il ‘900 Pierre Janet e Sigmund Freud, insieme a molti altri, posero la loro attenzione sui fenomeni traumatici.
Janet, filosofo e poi psichiatra francese, parlò di disaggregazione psichica, cioè di settori della mente scollegati fra loro, come effetto di traumi; Freud invece parlò di dissociazione intorno al trauma da seduzione.
In seguito, pur non sconfessando mai l’idea dell’origine traumatica delle isteriche che studiava, mise l’accento sulla fantasia inconscia e sul loro desiderio e parlò di rimozione sottolineandone l’aspetto dinamico.
Proseguendo a lunghi passi, negli anni ‘60-’70 i dati provenienti dai reduci dalla guerra del Vietnam si incrociarono con i dati provenienti dalle denunce delle donne abusate che iniziavano a parlare.
C’erano i racconti di soldati che continuavano a combattere in uno stato di congelamento psichico pur avendo vicino e vedendo gli amici morti, e le storie di donne che non urlavano quando venivano stuprate.
Si riscopre quindi l’insorgenza di una reazione particolare che porta a una diagnosi sul trauma, un trauma acuto (disturbo acuto da stress) e dei sintomi cronici (disturbo post-traumatico da stress). Si apre così un capitolo che è la psicotraumatologia.
Un evento che può mettere a repentaglio la sopravvivenza fisica o psichica (terremoti, catastrofi, rapimenti, abusi, fino a lutti improvvisi, diagnosi severe, etc) diventa traumatico per la sua intensità, per l’età del soggetto, soprattutto per la pregressa storia personale.
Più che il solo dolore è il sentimento di impotenza che sovrasta le capacità individuali di metabolizzazione. Ciò in particolare quando non esiste la possibilità di lasciare il campo, come spesso accade ai bambini, o di utilizzare l’aiuto. L’esperienza diventa allora non più pensabile quindi non più digeribile.
Irritabilità, allarme, incapacità di modulare le emozioni, intrusioni psichiche, fenomeni di derealizzazioni e depersonalizzazione insieme a ottundimento fino al congelamento psichico e disturbi della memoria: amnesie e ricordi intrusivi, e veri e propri fenomeni dissociativi (in sostanza è il risultato di un deficit nella normale integrazione dell’esperienza in strutture mentali coerenti e coese) sono alcuni dei sintomi che si possono manifestare come segno di un vero e proprio blocco nella metabolizzazione dell’esperienza che si cristallizza in memorie traumatiche.
La memoria, fondamentale per l’esistenza nel mondo, viene divisa in memoria implicita e esplicita.
Quest’ultima è una memoria autobiografica, corticale; la memoria implicita invece attiva delle reti sottocorticali e non è raccontabile perché non la si conosce. Chiaramente l’una influenza l’altra.
Nel suo breve articolo “Fear of breakdown” Winnicot afferma che se una persona ha paura che domani succederà qualcosa di infernale è perché l’ha già vissuto prima che la sua mente possa darle un senso.
Davanti a un trauma si può reagire in due modi; in tutti i traumi c’è una prima fase con una reazione sottocorticale non consapevole di iperarousal, ossia ipervigilanza, in cui il sistema simpatico viene stimolato e si ha quindi tachicardia, accelerazione del respiro, aumento della pressione, midriasi, in modo che si possa o attaccare o fuggire; poi può instaurarsi un meccanismo di ipoarousal, sempre sottocorticale, in cui il nucleo dorsale del vago instaura una specie di blocco, di congelamento, la cosiddetta “morte apparente” che, e ciò è molto importante, inibisce le funzioni mentali superiori.
Queste non sarebbero più in grado allora di modulare la risposta in senso evoluto e protettivo. Permane così una memoria traumatica indigeribile che potrà facilmente riattivarsi in situazioni particolari e produrre sintomi apparentemente incomprensibili.
Un esempio è la donna che non urla quando stuprata, un altro è quello della fuga psicogena, un altro ancora sono le personalità multiple. Una parte si disconnette dal resto della personalità. Numerosi pazienti raccontano le loro esperienze come se fossero dietro un vetro, come se si osservassero dal di fuori, da sotto l’acqua perché hanno separato le loro emozioni dal resto del Sé.
Oggi molti psichiatri parlano anche di un disturbo post-traumatico dello sviluppo o trauma complesso e lo collegano all’esperienza di un attaccamento cosiddetto disorganizzato. Si tratta di quelle situazioni in cui il caregiver è l’oggetto del bisogno di sicurezza e, contemporaneamente, la fonte di paura e minaccia.
Le esperienze primitive allora sono caotiche, instabili, la fiducia non si forma come dato esperienziale e si fatica a dare un senso di continuità all’esistenza.
Sono abusi, trascuratezze, dissintonie ripetute o violazioni dei confini che appartengono all’età dello sviluppo, che si manifestano con una sintomatologia che può irrompere nell’infanzia, nell’adolescenza, nell’età adulta sotto forma di varie patologie sia psichiche che somatiche, come mette in luce la ricerca recente.
Alcuni autori ritengono oggi, in modo convincente, che la dissociazione non sia un fenomeno difensivo di fronte a un trauma ma sia in realtà un epifenomeno di un attaccamento disorganizzato che irromperà secondariamente in relazione a esperienze traumatiche. Ciò spiegherebbe perché tale fenomeno non sarebbe patognomonico di tali esperienze, come mostra la clinica.
Come prevedibile, un tema tanto cardinale come quello del trauma ha cimentato, sul piano delle ipotesi etiopatogenetiche e terapeutiche, tutte le scuole psicologiche, ognuna col suo modello esplicativo della mente.
Per il trattamento dei traumi psicologici esistono quindi diversi approcci clinici, basati su differenti paradigmi teorici; alcuni di questi approcci psicoterapeutici hanno schemi protocollizzati di intervento "ad hoc", sicuramente efficaci nei traumi singoli.
In altri casi vi è un adattamento di modelli terapeutici "generali", che vengono specificatamente riorientati alla gestione della problematica post-traumatica.
Negli approcci dinamici e in alcuni tra quelli cognitivi l'intervento psicotraumatologico è inteso come un supporto alla rielaborazione degli affetti, delle narrazioni e delle rappresentazioni traumatiche, attraverso il tentativo di ricostruirne dei significati esperienziali coerenti con gli eventi occorsi; negli apporti comportamentali il focus è invece sulla semplice riduzione dei sintomi, attraverso procedure di ristrutturazione cognitiva.
Tutti gli indirizzi sottolineano tuttavia la necessità di instaurare, con i pazienti in primis, una relazione di fiducia condivisa. E’ necessario tenere conto del fatto che le problematiche del trauma e della dissociazione, possono facilmente intrecciarsi, come già detto, con quelle di sviluppi turbolenti e traumatici nel quale l’oggetto di investimento possiede caratteristiche minacciose.
Tali caratteristiche potranno risuonare allora, attraverso il transfert, anche nella figura del clinico che potrà trasformarsi, molto repentinamente, da salvatore a vero e proprio persecutore.