In tutte le sale di tutte le cinque scuole cinesi di Meditazione Chan, un tempo (non so se ancora è così) si potevano leggere quattro grandi ideogrammi la cui trascrizione in caratteri latini è questa: Chao Ku Hua Tou (Volgere la luce verso l’interno – Chao – attenersi – Ku – alla testa della frase – Hua Tou -). La “testa della frase” è ciò che precede ogni forma di pensiero e locuzione, è l’origine senza forma, vuota. La parola “Chan” traduce il sanscrito “Djana” (Meditazione) e designa un ramo cinese del Buddhismo Mahajana. Da esso verrà poi lo Zen giapponese (Zen è la trasposizione in lingua giapponese di Chan).
Il Chan si contraddistingue per il suo sincretismo, perché conserva caratteri della più antica meditazione Vipasyana, ma è molto ricco di elementi taoisti e talora fa suoi mantra e visualizzazioni del Tantrismo tibetano.

Da qualche anno ho affiancato alla Pratica Occidentale del Cuore-Mente(1) denominata “psicoterapia psicoanalitica” la Meditazione Chan e il Qi Gong. “Affiancato” Thairitamedmi sembra, non saprei se in qualche caso “integrato” o in via di integrazione. Forse questa modalità di navigazione in mare aperto discende dal fatto che per tanti anni ho discorso la mia analisi cordialmente mentale senza cercarne la convergenza con i tentativi di meditazione prima, con la pratica costante poi (il Qi Gong è venuto in seguito).
Certo non è che la cosa non mi sia apparsa anche nella sua realtà di “ombra”.
E’ un fatto che nelle derive junghiane, almeno in Italia, si parlava molto di Oriente e di Zen, India e Cina, Shiva e I Ching, ma si trattava di parole senza pratica, di vagheggiamenti mutilati delle loro fondamenta esperenziali-conoscitive. Condividere la meditazione lì, ma allo stesso tempo direi esternarla prima che avesse maturato i suoi frutti, mi sembrava inopportuno. Questo è un insegnamento che ho ricevuto da Jung per primo, ma non specificamente junghiano: non anticipare, non trarre fuori ciò che ha bisogno del calore placentare, lasciar compiere la gestazione.
Più generalmente va detto che ho sempre lasciato che le “cose” che “mi venivano” (non solo psicoanalisi e meditazione) prendessero il posto che era loro possibile, che riuscivano ad occupare naturalmente-storicamente nel quotidiano, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Non mi sono mai occupata, né tanto meno preoccupata,  di tessere la tela delle relazioni fra le “cose”, né ho mai organizzato né controllato lo scorrere delle “cose”, se parallelo, se divergente, se dispari, o a plurilivelli, integrabili o meno. Le “cose” si sono sempre badate fra di loro accomodandosi reciprocamente. Per quanto ricordi di me, fin da bambina, come della persona meno assillata dai pensieri che abbia conosciuto nel mio ambiente, so che questo depotenziamento della volontà e del controllo era ben lontano dal “nutrire la vita” del saggio taoista che lascia i suoi montoni liberi di pascolare ma “se ne vede qualcuno che resta indietro, lo frusta”.
A proposito del quale François Jullien, da cui traggo la citazione dello Zhuangzi, commenta: <<l’atteggiamento da tenere rispetto al proprio nutrimento è quello di chi fa pascolare il suo gregge lasciandolo avanzare come viene, al suo ritmo, a suo piacimento, pur senza perdere mai di vista i ritardatari. E’ evidente infatti che il pastore non guida il gregge camminando alla sua testa, come il Buon Pastore del Vangelo che, attraverso il deserto, conduce le sue pecorelle verso una terra promessa più verde e più fertile. Lo vedo piuttosto limitarsi a badare, dietro le sue bestie, che esse non si lascino fermare qua e là, per effetto di una motivazione dissidente, di modo che tutte continuino ad avanzare; l’obiettivo qui non è progredire verso un ideale ma semplicemente restare evolutivi.>> (Nutrire la vita, Milano, Cortina editore, 2006, pag. 28).
Questo mantenimento evolutivo, <<in prossimità e in sintonia con le cose>> (idem, pag. 101), questa costante modulazione della presenza senza attaccamento né preventiva finalizzazione, erano certamente inquinati da qualcosa che qua e là restava indietro,  <<non partecipava più all’evoluzione comune>> (idem, pag. 29), si inceppava, faceva inerzia. Questi punti inerziali si mostravano effetti della storia di un soggetto incompiuto, fessurato, ma in qualche modo spesso pronto e leggero, e complessivamente indisponibile a farsi tiranneggiare dall’interno come dall’esterno, da complessi e paure, ma anche da persone, ideologie, fini o progetti. Ma non ci stiamo un po’ tutti dentro a questo scorrere relativo e relative ostruzioni? Dentro questo “lasciar andare” per intelligenza del Reale e insieme per timore del conflitto? Ed esso, pur comportando rimozioni, non avrà dentro qualcosa del giusto “timore e tremore”?
Non conoscendo allora Zhuangzi, mi sembra fossi ispirata da qualcosa di molto simile a ciò che scrive Virginia Woolf: se si mettono tutti i nostri spunti e appunti, i nostri fogliettini di osservazioni, sensazioni, sorprese, in un cassetto, quando andiamo ad aprirlo dopo un po’ di tempo, i fogliettini si sono auto-organizzati  in una storia che vale pena scrivere. (Non è che non veda tutta la distanza di questa gestazione del racconto dal pastore che libera i suoi montoni al pascolo e li pungola quando restano indietro.)
Infine: oggi anche la mia lunga analisi personale mi appare “meditante”, ovvero fondamentalmente già libera da ricerca di risarcimenti, scopi, dover fare e dover essere.
Devo render conto del fatto che all’interno della psicologia analitica junghiana la “saggezza” funzionava un po’ come fine o meglio come carica utopistica e in questo l’Occidente  non potrebbe essere più lontano dal semplice restare evolutivi. Allo stesso tempo per “analisi libera da ricerca di risarcimenti ecc. …” intendo dire che la verifica del rapporto fra risarcimenti e scopi, fra scopi possibili e desideri impossibili, fra natura propria e illusioni, riposava sull’affidamento inverificabile all’agio e/o al pungolo dell’attimo presente.
La Meditazione Chan ha liberato le potenzialità liberatrici della psicologia junghiana proprio per l’assolutezza in cui staglia l’attimo vivente, per il depotenziamento dei condizionamenti e per la dolcezza (maitri in sanscrito, metta in lingua pali) che abbassa il livello dei conflitti. Dico cioè che l’Occidente moderno e contemporaneo ha trovato una sua Via Regia (nell’attuale condizione post-contemporanea essa non è perduta quanto piuttosto infrascata). Ma è stata la Meditazione Chan a farmela riconoscere, a pungolarla e ad inverarla.


Non saprei dire come ho cominciato a proporre ai cosiddetti “pazienti”, ovvero ai soggetti ospiti del Cuore-Mente della psicoanalisi psicoterapeutica, la meditazione accanto alle cosiddette “sedute”. “Accanto” vuol dire che i soggetti sono informati che possono partecipare agli incontri di meditazione che si tengono a una certa ora di un certo giorno (sempre gli stessi). Ma di tali incontri non è quasi mai esplicitato il fine terapeutico. Se viene richiesto perché si viene invitati e a quale scopo, si dice semplicemente di venire a provare di persona. In un secondo tempo può capitare (in effetti fino ad ora è sempre capitato) che, parlando prima o dopo la meditazione, venga fuori, contestualmente alla presa di coscienza di “che cosa è” la meditazione, che essa non ha scopo e non è mezzo. Questo anche nel caso in cui l’invito a partecipare sia stato più o meno caricato di un fine terapeutico. So che questo non potrà non esserci nelle formazioni mentali di tutti, me per prima, a prescindere dall’invito, ma che è vero, più vero il contrario: c’è ad un certo livello dell’esperienza e delle storie personali , ma non c’è nel sedere e respirare che è fuori della nostra storia e ci disloca dal fare, proporre, ottenere. La meditazione, proprio nel suo incollare all’istante, all’attenzione vigile non selettiva e non giudicante, a ciò che accade così come accade, è paradossalmente un radicale confronto con l’Altro. L’Altro è questo.
Non so se affiancare la Meditazione Chan alla Pratica Occidentale del Cuore-Mente sia una soluzione duratura, può darsi che il sapere di ogni tipo di meditazione possa trasformare da dentro la Pratica stessa o viceversa sostituirla. Ma per ora non emergono possibilità di questo tipo nell’ambito in cui le due operano insieme o separate (magari parallele). Allo stesso tempo che sedere e respirare può alimentare la Pratica Occidentale, questa, mi sembra di intravedere, arricchisce la meditazione più di quanto la adatti a sé. Su di un punto almeno la meditazione è inadattabile. Può portare il peso di interrogativi, forme di pensiero e koan (2) che vengono dalla nostra cultura, ma posa sul Cuore-Mente come già liberante di per sé: se si sta nel Cuore-Mente si è liberi.
Qui si aprirebbe un’analisi (che non possiamo affrontare in un discorso così sintetico) del livello immaginativo-evocativo-simbolico di tale nesso Cuore-Mente e di questo stare nel invece che stare per.
Ricordo qui la pagina di Keizan (1200-1272), fondatore del Soto Zen, sul malato che si presentò a Bodhidharma, il Patriarca venuto dall’India in terra di Cina.
Quello che sarebbe divenuto il primo Patriarca cinese della prima Dinastia Chan fu indotto ad aspettare in modo tale che non chiese la guarigione né gli fu proposta una cura. Gli si mostrò  una pratica di presenza e consapevolezza di “ciò che è”.
La Meditazione Chan mi sembra preziosa proprio in quanto libera dai nostri fantasmi del Senso e del Fine. La parola che può convenire è proprio “fantasmi” perché vanificano il Reale espiantandolo dal primum simbolico nel significato egoico e unidimensionale. Il Senso e il Fine, se esplicitati, sono ridotti a significare “cose”. “Cose” risultano “la salute”, “la democrazia”, “lo spirito”.
Se assegniamo alla meditazione un compito terapeutico perdendola nel suo radicale nonfare, la riduciamo al già conosciuto campo dei miracoli: la mettiamo cioè all’opera in cui ci siamo fissati, “cosa” che produce e moltiplica le “cose”. Ma non ci siamo imbarcati su questa zattera perché ci sembra diversa? Allora stiamoci sopra esplorandone le possibilità e adattando ad essa le nostre conoscenze di navigazione. Non vogliamo prefissare lo scopo, dobbiamo indagare se è ancora quello, e quale era e se è proprio a causa sua che la nave su cui eravamo ha cominciato ad imbarcare acqua. I fini e i sensi, scopriamo, sono multipli, variabili, intersecati, indefinibili.
Anche nella psicologia junghiana lo scopo iniziale è, lungo il processo analitico, dimenticato o “mobilizzato”, in ogni caso superato, e gli allievi, per quanto allievi, epigoni cioè, si sono sempre premurati di distinguere presso il soggetto il “prendersi cura di sé” dal “curarsi”, la consapevolezza del Corpo-Mente dall’oggetto corpo-mente. In una società universalmente medicalizzata, in cui la medicalizzazione genera sempre  più “malati”, la psicologia analitica, anche se derivata, è stata però nel passato alla guida dei saperi non finalizzati alle ideologie della salute. Tuttavia ci si accostava alla psicoanalisi, anche a quella junghiana, in quanto sofferenti di una sofferenza di cui l’opinionismo di massa ancor prima della tecnica medica aveva già fornito l’indicazione di cura. E’ stato perciò facile, e fatale, perdere di vista i “simboli dei sintomi” e cadere nella registrazione dei segni nonché nella struttura manipolativa di una psicoterapia reificante, che fa della “malattia” una “cosa cattiva” e del “processo di guarigione” una “cosa buona”.
 “Ricomincio da capo” (nella comunità buddhista delle origini ci è testimoniata la Pratica del Ricominciare Da Capo) la pratica psicoterapeutica come Pratica Occidentale del Cuore-Mente che si articola nel nostro linguaggio circa il desiderio, la soggettività e l’oltrepassamento, i campi di attrazione e le leggi dei sistemi complessi. Ovviamente l’incontro già avvenuto tra fisica quantistica e Dao, sistemi complessi e Abhidharma, comporta un approfondimento, uno squarcio dell’orizzonte precedente. Ma il metodo comprovato che finora si mostra come l’unico che attui la sua occidentale maitri o metta (dolcezza, gentilezza, la consapevolezza calma (3), cioè la presenza leggera e flessibile adattativa) è quello del lasciare che l’ospite si volga all’interno, come e dove può, e non sarà certo alla mente originaria, bensì al sé presunto, là dove il teatro del cosiddetto inconscio sfonda verso…
Si tratta di una specie di “conversazione fra le erbacce”: così veniva chiamato nell’antica pratica Zen un parlare per segni convenzionali, in modo tale che l’ospite arrivasse da sé a sperimentare che si sta sempre parlando d’Altro. L’abate di un monastero, per esempio, domanda al nuovo arrivato: - Da dove vieni? – Il nuovo arrivato non capisce la domanda e risponde: - Dal paese Tal dei Tali -.
L’abate o maestro, per compassione, può fare altre domande o no, il nuovo arrivato può metterci pochi minuti o anni per realizzare bruciandola l’intenzione del Cuore-Mente che lo ha portato al monastero.
 La Pratica Occidentale del Cuore-Mente chiamata psicoterapia è una “conversazione fra le erbacce” proprio perché l’ospite è  da sempre ospite di una casa di cui non sa nulla. La sua conversazione interna dovrà scendere dalla testa e salire dalla pancia al Cuore-Mente per tacere nell’insight.


Se ad un certo punto della conversazione fra le erbacce indico la meditazione, la persona può comprendere al suo livello di conversazione/conflitto che c’è un’altra parte, un’altra riva. Può partecipare o no (magari mesi dopo che le si è presentata la possibilità). Se partecipa si trova dentro una pratica che volge il Cuore-Mente al Cuore-Mente. E’ ancora di più un attraversamento delle erbacce, non salta certo la complessità dei conflitti all’ombra di tutto ciò che si è presunto, ma avviene alla luce di una riva che è già da sempre raggiunta.
Questa riva è per ciascuno la sua, nessuna designazione è possibile, a rischio di ostacolare l’oltrepassamento in cui il soggetto è già oltrepassato.
Se apriamo la psicoanalisi al sapere senza oggetto (non il Sé) e la meditazione che la può affiancare assottiglia questo sapere passandolo attraverso la presenza del Cuore-Mente al Cuore-Mente, abbiamo l’opportunità di spogliarci da tutto ciò che distrae l’attenzione del pastore e fa dissidio fra i montoni.
Osservo brevemente che dal cenno polemico di James Hillmann contro la meditazione (condivido la sua insofferenza per le mode neo-spiritualiste, ma non si tratta di questo “fantasma dello spirito”) mi sembra che egli denunci nella meditazione una “vetta” senza “valle”. Mentre è proprio il contrario: “l’addestramento a raccogliere la mente” come suona in sanscrito o “sedere e dimenticare” di Zhuangzi e “volgere lo sguardo verso l’interno e attenersi alla mente originaria” come suona la traduzione degli ideogrammi cinesi della Meditazione Chan, segnano prima di tutto una discesa nel corpo, nella sensazione, nella inscindibilità di dolore fisico e affezione mentale. Diciamo che la “discesa” è ancora più vertiginosa che in qualsiasi pratica del corpo-mente, che cioè coinvolga il Corpo e il Cuore-Mente come le due facce di una Realtà in cui le si può distinguere ma non separare, proprio grazie alla complessità e sottigliezza del sapere impresso in questa pratica.
Si potrebbe a questo punto obiettare che poiché chi guida è la stessa persona del cosiddetto psicoterapeuta (ma non sempre e non solo) si compromette il setting e si alimenta la dipendenza. Ciò è sempre possibile, ma non inevitabile. Nel Chan e poi nello Zen si dice che bisogna saper indossare tutte le maschere senza attaccarsi a nessuna né farsi imprimere da nessuna.
L’aspetto invece più difficile da sostenere qui in Occidente (anche per poter vestire più di una maschera) è il nonfare, il depotenziamento di io e mio, la distinzione fra presenza consapevole e controllo. Nella maggioranza dei testi, anche autorevoli, della diffusione di massa, alla parola “meditazione” è associata la parola “controllo”, segno dietro al quale stanno in agguato i fantasmi dell’io che tira su la testa dalla massa indifferenziata delle pulsioni e le mette in riga ai suoi ordini. Credo che l’uso che ne fanno il Dalai Lama e personalità del Buddhismo occidentale come A.B. Wallace e Matthieu Ricard nelle conversazioni in inglese al M.I.T. di Chicago sulla “mente”, sia legato alla ricerca di un linguaggio comune agli esperti di neuroscienze, comportamentisti e cognitivisti (cfr. Il Buddha in laboratorio, a cura di Ann Harringhton e Arthur Zajonc, Amrita ediz. 2008).
I buddhisti cioè stanno traducendo nella lingua comunicativa per eccellenza qualcosa che non pertiene al linguaggio comunicativo.
A leggere bene si noteranno comunque le sfumature nell’uso della parola da parte del buddhisti rispetto ai tecnici. Ciò in un confronto in cui ben poco rimane della complessità propositiva del neurobiologo Francisco Varela, cui il libro è dedicato(di questo ci si rende conto soltanto al capitolo XXXIII).
I buddhisti hanno il merito di illustrare e rendere accessibili alcuni testi dell’Abhidharma, nonché di entrare in alcune sottili differenze di linguaggio che riguardano le formazioni mentali e il non-sé. Comportamentisti e cognitivisti non sentono il bisogno di verificare il linguaggio dell’Occidente rispetto a “io” e “soggetto”, cui essi stessi devono spesso fare riferimento. (La cosa va meglio per altri aspetti ma non parimenti aperta alla “questone del soggetto” in Le emozioni che fanno guarire, Oscar Mondatori 1998 e in Le emozioni distruttive, Saggi Mondatori 2003). E’ significativo che i tecnici occidentali raccolgano le specifiche dettagliatissime distinzioni delle formazioni mentali in una classificazione di elementi usando appunto il termine descrittivo-sequenziale taxonomy.
L’equivalente della parola “controllo” non si troverà mai neppure per sbaglio (se non di un traduttore sprovveduto) in un testo originale o di commento alle originali guide alla meditazione (l’Anapanasati Sutra e il Satipattana Sutra, per esempio, e i loro commenti).
“Nessun controllo, nessuna resistenza” (4) suona l’insegnamento iniziali del Chan, dopodiché il “controllo” non è mai più evocato per evitare il rischio di richiamarlo nel Cuore-Mente del meditante. Tutto il linguaggio della meditazione è simbolico-evocativo, e quindi tanto più potente di quello che significa le “cose”. La specificità della meditazione come de-volere, come presenza e non “progresso verso”, consapevolezza vuota e non registrazione di segni, si coglie proprio nella sua “virtualità”, ovvero nella realtà del respiro libero di fluire e diventare e mutare.
 Nei termini più conosciuti in Europa, quelli del Buddhismo tibetano, ogni meditazione che non si pone scopi è pratica di Bodhicitta (5) assoluto, mentre le cosiddette meditazioni “di guarigione” costituiscono pratiche di Bodhicitta relativo (Jamgon Kongtrül, The Great Path of Awakening, Boston-London 1987).
Non che ci sia una gerarchia fra le due, non che una sia migliore dell’altra. Se partecipiamo a una sessione di meditazioni “di guarigione” guidata da un maestro orientale (per lo più tibetano) sentiamo come anche questa pratica non sia tanto “relativa”. Prima di tutto “meditazioni di guarigione” le chiamiamo noi. I maestri Chögyam Trungpa Rinpoce, Dilgo Khyentser in poche ecc… specificano che non si pensa, tanto meno alla guarigione, che fondamentalmente ci si connette con la saggezza del cuore. Che anzi non è all’interno di una “mente terapeutica” che si svolge la pratica, ma in un cuore che coltiva, in ogni situazione, i suoi semi di “accogliere – lasciar andare”.
Ogni meditazione risponde alla massima del lojong (“addestramento mentale”) tibetano, risalente al maestro indiano Atisha (nato nel 982 d.C.): “Abbandona ogni aspettativa di risultato”.
“Relativa”, molto relativa la possiamo rendere noi occidentali che siamo ben lontani dalla “via di mezzo” e dal distacco compassionevole che fa sì che una meditazione sia nonfare, non-indirizzare, non-volere, bensì semplicemente stare (6). Quando si visualizza con i maggiori dettagli possibili il maestro-radice di un certo tipo di meditazione “di guarigione”, ogni scopo è superato, oltrepassato dalla percezione interiore. Comunque, i maestri che guidano meditazioni (come abbiamo visto, impropriamente dette “di guarigione”) indicano, talora insistono sulla meditazione di assorbimento e/o di chiara visione (7) come lunghe pratiche quotidiane precedenti a ogni prepositura di scopi.
La meditazione del respiro non può essere saltata, né abbreviata, né contraffatta da scopi. La meditazione è per lungo tempo respiro. Poi è ancora respiro. L’immediatezza dell’esperienza presente senza giudizio, che brucia il retro-pensiero di quanto “mi farà  bene arrivare a non pensare”, deve radicarsi e attenuare fino a spengere quel mi e quel bene dietro cui si cela la paura che blocca lo scorrere della vita: bene contrapposto a male è già il blocco.
Nel Sutra del dio delle sorgenti calde della foresta si parla della “trappola” delle contrapposizioni fra desideri e paure, della necessità di non rimanerne catturati (è una buca profonda mascherata da buone intenzioni) e una grande guida contemporanea del tonglen scrive: “Evitare il dolore ci tiene intrappolati in un ciclo di sofferenza” (Pema Chödrön, La libertà illimitata, Oscar Mondatori 2006, pag. 104). Il suo ripetuto insegnamento è quello di stare con l’immediatezza dell’esperienza “non scivolando nella trama della storia che si accompagna alla mia esperienza” (pag. 105).
 La stessa Pema Chödrön (nata col nome di Deirdre Blomfield-Brown nel 1936 a New York City) nell’intervista di James Kullander racconta che i buddhisti orientali non possono minimamente capire quanto gli occidentali spostino sull’io gioia, dolore, insoddisfazione, e quanto questo egotismo sia resistente dentro la meditazione “di guarigione”, ostacolandola, trattenendo cioè nella sofferenza.
Lei stessa, quando già guidava il tonglen (che è una meditazione avanzatissima di “dare-ricevere”) dovette tornare al semplice sedere e respirare.
“Una volta, ero in stretto contatto con una persona a cui sentivo di stare antipatica e non sapevo come uscirne. Per di più questa persona era scostante e non mi diceva quale fosse il problema. Il fatto di sentirmi rifiutata, associato a quello di non avere la possibilità di discutere questo problema, mi fece pensare che ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato in me. Che io fossi una persona cattiva.
Provai tutte le tecniche di meditazione che avevo insegnato agli altri, ma nulla alleviava il dolore che sentivo. […] Dunque, andai nella sala di meditazione del posto dove praticavo allora e mi sedetti. Non feci alcuna particolare meditazione. Semplicemente mi sedetti nel mezzo del dolore, dritta come un fuso, tutta la notte. […] Nessuna parola può esprimere quanto terribile sia questo luogo. Ma iniziai semplicemente a respirarci dentro. […] Mi sentivo quasi morire. […]  Il livello più profondo di insoddisfazione, che noi occidentali erroneamente interpretiamo come qualcosa di sbagliato in noi, mi passò attraverso. Mi attraversò. Compresi come la resistenza all’idea di non essere amata non faceva che peggiorare il dolore. […] Quando quella volta mi sedetti per tutta la notte, semplicemente non fuggii da quello che accadeva al mio corpo e alla mia mente.” (pagg. 101-103)
 Dal racconto di questa guida è palese che orientarsi nella sola direzione della “guarigione” vuol dire fuggire, costringere qualcosa che non si può costringere, opporsi a qualcosa a cui non ci si può opporre. Nel respiro, ad ogni inspirazione seguirà sempre una espirazione. Se dobbiamo passare attraverso un’esperienza di morte, ci passeremo comunque, e tanto peggio aggrappandoci alla via di fuga impossibile. L’esperienza di morte, come nel caso appena riportato, sarà vita, se non contrapporremo benessere a dolore, guarigione a malattia, io a tu.
Data la recente storia della meditazione in Occidente, è bene che essa si mantenga nell’andare – e – venire del respiro, senza determinarsi in un valore piuttosto che in un altro: non resistere, non ingerirsi in ciò che “viene da sé così”. E questo tanto più nel caso in cui la meditazione sia proposta a fianco o dentro una terapia, proprio perché questa implica comportamenti in cui l’io e il mio, il desiderio e il volere, la desoggettivizzazione e l’alienazione si attaccano al significato della “guarigione dalla malattia”.
La meditazione può essere l’altra parte della “conversazione tra le erbacce”, certo in una dinamica molto diversa da quella che correva nella non-relazione fra il maestro Zen e i discepoli. Ma quando in Europa e soprattutto negli USA arrivarono (anni ’60 - ’70 del sec. XX) i maestri giapponesi, videro la possibilità di una nuova fondazione della pratica in grave crisi nel paese d’origine. Non era il caso di ripetere, quanto conveniva esplorare un’altra possibilità. L’Occidente non era pronto e la proposta Zen è caduta nello pseudo-pensiero della nascente new age.
Oggi siamo ancora più carichi di troppo facili affermazioni e negazioni, di accettazioni e repulse, ci sentiamo spinti ad esprimere opinioni su tutto, a scegliere, a contrapporre le nostre formazioni mentali a quelle altrui, come se si trattasse di contrapporci per esserci.
“Non v’è niente che sia da discutere” questo l’insegnamento Chan.
Abbiamo ancora più bisogno di monitorare i risultati, applicare, confrontare, serializzare, oggettivare in statistiche. L’insegnamento di ogni ramo buddhista, di ogni scuola di meditazione: “Non vi soffermate a stabilire progressi o regressioni. Non vi affliggete e non vi compiacete. Il giudizio pone limiti al Cuore-Mente. Non ponete limiti al Cuore-Mente.”


Se la meditazione fosse una tecnica si potrebbe stabilire a se stessi il fine di impararla, e ne saremmo fuori. Stare nell’esperienza viva dell’istante non lo si impara, si sta. Nonsifa. Non c’è problema di inadeguatezza o di adattamento. Ci viene data l’opportunità di deproblematizzare, deregolare, designificare.
Questo può essere difficilissimo: dare al Cuore-Mente un grande pascolo e usare il pungolo della presenza nel respiro (più che attenzione al respiro) scatena in genere la tempesta dei pensieri. Ci si sente strattonare, come in molte favole da statue e cadaveri. Molti dicono: -Appena mi siedo la testa entra in un turbinio che sembra ingovernabile.- e in effetti lo è, se dolcemente non si usa il pungolo della presenza nel respiro come il cieco usa il bastone. La dolcezza, la pazienza, la perseveranza sono tutti semi della mente (8) sviluppatisi in virtù. Ad esse fa appello la meditazione nello stesso momento in cui le incrementa. In Occidente possiamo essere remissivi, condiscendenti, passivi, per paura, per calcolo, o per il fatto di essere stati educati alla delega, alla gregarietà, alla dipendenza. Ma l’io, anche in queste posizioni “rovesciate” l’ha fatta comunque troppo da padrone perchè sappiamo qualcosa dell’ascolto di ciò che passa nel Cuore-Mente.
La pratica ateorica del Cuore-Mente nel Chan appare il meno impugnabile dei non-metodi, il suo non-pensiero più vivido è costituito dal Sutra di Hui Neng (638-713) il Sesto Patriarca cinese (33° nella successione da Mahakasyapa). Ma anche questa esperienza diretta, indefinibile a parole, divenne col tempo, nel tempo, un corpus dottrinale.
Tuttavia se leggiamo le memorie dell’ultimo grande maestro Chan, Xü Yun (“Nuvola Vuota”) morto a 119 anni nel 1959, ne abbiamo ancora un’impressione di freschezza sorprendente. Impossibile raccontarne qualcosa, condensarne un concetto. “Non ho mai parlato” viene messo sulle labbra del Buddha in alcuni sutra.  
Ecco: Xü Yun non parla. Non se ne può parlare.
Il Buddhismo  cambierà ancora come già è cambiato nei secoli, morirà perché le cose che nascono, muoiono. Il Buddha era portatore di questa chiarezza a cui la meditazione ogni volta ci chiama. Anche la forma della meditazione passerà in altre forme. Ma ciò che in questo momento essa ci trasmette, ciò di cui ci fa coeredi, è che la legge dell’impermanenza può traghettarci da un io già destabilizzato - da Freud in poi (ma a quanto pare incrudelito nel delirio della manipolazione tecnica) – alle formazioni mentali emergenti di volta in volta nel processo intersoggettivo. La meditazione non può infine essere tagliata fuori da ciò che la contraddistingue in tutte le sue forme e qui dico orientali, non solo buddhiste. Per quanto diversissime tra loro per gli insegnamenti su cui si fondano, nessuna di loro presuppone un io separato. L’illusione suprema, la più contaminata e oscurante, è l’identificazione di un sé con una forma corporea limitata, determinata e definita dai suoi pensieri e dai suoi sentimenti. “Stabilirsi fermamente nella Conoscenza” come hanno lasciato scritto i discepoli del Buddha, soprattutto per noi occidentali può cominciare proprio dal superamento di questa illusione.

Note

(1)  Traduzione possibile del cinese “Xin”. Xin è il cuore (non solo l’organo) ma quando il Buddhismo arrivò in Cina (circa 1° secolo dopo Cristo) designò inseparabilmente anche la mente. A Xin è collegato il sentimento, l’intenzione, l’intelligenza, che sono “funzioni”, diremmo noi in Occidente, di Xin. La volontà ne è essa pura espressione.
(2)  Questione irresolubile per l’intelletto discriminante. Reso celebre nello Zen giapponese, ha origine in due scuole del Chan.
(3) Y Jing, le parole che accompagnano il Qi Gong e la prima parte di alcune meditazioni Chan.
(4) Il “retto sforzo” della pratica buddhista è costituito da un addestramento alla dolcezza, pazienza, costanza, sforzo senza forza, verso le “cose rette” e lungo la “retta via“. Non implica perciò il diktat e la performance dell’io. A questo proposito è da notare che in Cina, ma non in Europa, ci si può richiamare alla volontà, che nell’ideogramma cinese è una pianticella che spunta dal cuore. In Occidente la volontà è collegata al potere del Super-Io. Per cui forse bisognerebbe aggiungere: “Nessuna volontà”.
(5) Cuore-Mente del Risveglio.
(6) Il Dalai Lama nei due libri citati sulle “emozioni” accenna a qualche perplessità circa la autolimitazione delle sedute meditanti che il Prof. Kabat-Zinn ha introdotto nel programma della riduzione dello stress nella Clinica dell’Università del Massachutts, ma come si conviene a un buddhista, lascia che i suoi interlocutori arrivino da soli, se possono, al cuore della situazione, senza discutere. Molto positivo si mostra invece Tich Nath Hahn soprattutto rispetto all’Istituto di Medicina di Harvard fondato dal prof. Herbert Benson (L’energia della preghiera, Oscar Mondatori 2008, pag. 68).
(7) “Chiara visione” traduce vipasyana, la meditazione buddhista più antica illustrata nel Sathipattana Sutra, praticata dai monaci theravada (“gli anziani”). La Meditazione di “assorbimento”, tipo quella Chan e Zen, si risolve comunque nella “chiara visione” della mente vuota. La “chiara visione” della vipasyana procede per gradi attraverso la contemplazione “del respiro nel respiro, delle sensazioni nelle sensazioni, delle formazioni mentali nelle formazioni mentali, della mente nella mente” (passaggio ripetuto in alcuni sutra).
(8) E’ un aspetto, una funzione, un livello del Cuore-Mente che in Occidente è stato equiparato all’inconscio collettivo junghiano.

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