Pratico Qi Gong, che non coincide col mio lavoro, bensì costituisce una Pratica del Cuore-Mente a cui, per quel che mi riguarda, accedo, se non direttamente senza fini (come pratica infinita), nei pressi.
Ho accettato con piacere di intervenire a questo convegno Il linguaggio della natura in noi. Sintomi e Simboli del corpo nella medicina vitalista, organizzato da PerCorsi a Firenze.
Quando mi è stato chiesto che profilo avrei voluto dare alla mia partecipazione non ho avuto che un attimo di esitazione, non posso ritenermi esperta di Medicina Tradizionale Cinese (di cui fa parte il Qi Gong), bensì una principiante del Cuore-Mente, al “secondo passo”.
Ho risposto nel lampo di un ricordo: uno sconosciuto (per me) ad uno dei tavoli durante il pranzo che seguiva la lezione-conferenza di Annick de Souzenelle nel terzo giorno del Semi
nario di Assisi, il 16 ottobre 2008, aveva detto, letteralmente: “Come ha potuto il linguaggio offuscarsi al punto di dimenticare i simboli del corpo?”
Eravamo a tavola, era un discorso “tra noi”…
Ma veramente ogni occasione è buona per sfregiare la domanda di conoscenza e consolarci con la retorica della nostra anima bella? Purtroppo sono sensibile a questa trappola perché io per prima vi cado ad ogni passo. Dentro di me cercai perciò di tradurre la retorica dell’ardore in una domanda che si attenesse al principio di com-prensione della “cosa” nel processo di significazione che muove dal prendere le “cose” insieme, e questo “insieme” si struttura grammaticalmente e sintatticamente nell’ordine simbolico.
La parola “corpo”, dall’accadico qarbu, ebraico qereb, indicava originariamente, e indica tuttora nel linguaggio parlato medio-basso, il “sotto”, l’utero e il ventre, la “pancia”, le parti molli, le viscere. Non indica un organismo in sé né una parte dell’organismo, bensì fa esplodere la polivalenza della parola (“sotto”, “parti basse”, “viscere”) nella complessa universale tessitura della zoé. La parola trasporta in tutte le maggiori lingue europee l’immaginario semitico-orientale, poi minoico e greco, del labirinto, tomba e inferi (“mondo di sotto”), abisso e “cammino verso la luce” (traduzione etimologica della parola scritta nei caratteri della Lineare B).
Ancora in alcune tombe etrusche l’incisione su pietra del labirinto disegnava più che la classica spirale minoica, le viscere intestinali: interiora umane-animali e cammino sotterraneo dell’anima. Questo sostrato simbolico si perde non tanto perché non siamo edotti dell’etimologia, ma perché la relazione che, per esempio nella frase dello sconosciuto, si stabilisce fra “corpo” e “simboli” è reificante, designa cioè oggettivamente i simboli come “cose in sé”. Dire “i simboli del corpo” è molto diverso da “il corpo. Simboli…” in cui le relazioni sono ancora da attivarsi nel campo in cui la determinazione simbolica di volta in volta si declini soggettivamente.
Oggi potrei formulare la domanda così: “a cosa, a chi è necessario/conveniente che i vari linguaggi verbali - eccetto quelli che fanno del linguaggio il campo di ricerca della parola - si riducano ad una economia comunicativa da codice, pre-scindendosi dalla funzione simbolica in cui quello che chiamiamo “corpo” è simbolicamente tessuto nelle relazioni natura-storia-linguaggio?”.
Sottolineo che la domanda non è retorica e non finge di avere la risposta, perché se succede così, mi limito a presupporre che ciò sia in ordine e per gli scopi di qualcuno o di qualcosa. Per proteggerci dalla potenza simbolica? Non posso fermarmi a mostrare che la nostra storia personale e collettiva risponderebbe che così non è. Qualcuno ha risposto interrogando la dialettica servo-padrone, all’interno di noi e nelle relazioni inter-personali. Qui posso soltanto tornare al modesto tentativo di formulare la mia domanda.
Il “corpo” dentro la concatenazione simbolica del linguaggio (che, per esempio, in italiano lo ha visto per secoli e secoli in opposizione e ricongiungimento-coincidenza-con “spirito”) mi identifica immediatamente.
Mi riconosco nella Pratica dell’Inconscio benché in dialettica con la Pratica del Cuore-Mente. Il rigore e la sintesi operata nel laboratorio psicoanalitico rispetto a più filoni del pensiero della cultura occidentale (dalla maieutica socratica ai mitologemi alchemici); il suo mettere al vaglio le funzioni socio-mentali, la valorizzazione del “mondo di mezzo” immaginale, la centralità del nodo “potere-godimento-pulsione di “morte” (centrale, in varie forme, anche nella letteratura del Novecento, da Kafka e Canetti a Garcia Marquez); il travaglio, veramente decisivo nel secolo scorso, su “ego” e “soggetto”, fanno sì che la psicoanalisi rappresenti ancora (nonostante il passaggio epocale irreversibile) la punta di diamante del linguaggio che “prende insieme” ciò che, separato, si riduce a “cosa”, in una pretesa semplificatrice corrispondenza fra segni e oggetti-azioni-qualità. Linguaggio in cui non si propone una risposta alla “richiesta dei bisogni reali” (la sotto-ideologia alternativa al consumo e allo spreco culturale, al prêt-à-porter e all’usa-e-getta dell’abito culturale) ma si induce ad arretrare alla domanda sul desiderio che eccede sempre il cosiddetto “reale”, domanda che rinvia ad un’altra domanda, nella complessità dell’infinito discorso in cui non si cessa mai di accedere al “basso”, al “nascosto” per assumerlo in quanto tale, non ai fini della Rivelazione, ma per il disvelamento di quella verità che nella declinazione soggettiva porta tutta l’eteronomia del simbolico. Assunzione di linguaggio attraverso il linguaggio.
Le parole “lingua”, “linguaggio”, hanno, come molte parole italiane, una base semitica. In accadico lequ significa “portare su, prendere su, assumere”. “Assumere” in effetti (da ad-sumo ) non vuol dire altro che “portare verso”, in un moto di avvicinamento. A che cosa? All’esistenza.
È funzione eminente del simbolo far ex-sistere, balzare su. O possiamo dire che le “cose” sono portate su e incluse nella struttura del linguaggio in cui ogni segno non è semplicemente suono-e-rappresentazione, in quanto elemento strutturale delle concatenazioni e corrispondenze simboliche.
Le “cose” si dispongono in un universo che è universo di senso, o non è. Da qualsiasi postazione si parli, di qualunque luogo ci diciamo rappresentanti o semplicemente presenti, non possiamo non dire che il corpo dell’uomo, essere di linguaggio, non può essere detto come petizione di principio o “linea Maginot” della natura. È assunto, portato su, ex-siste, nel linguaggio, dove la sua istanza può risultare deflagrante, sovversiva, o al minimo costitutivamente critica del nostro pregiudizio sul naturale e sull’umano.