In qualsiasi pratica orientale che si presenti in forma di meditazione (statica, dinamica, statico-dinamica), la disciplina, il vigore (e perfino il rigore), lo “sforzo” sono sempre associati alla naturalezza della presenza, al lasciar andare, e specificamente nelle pratiche cinesi, al wu wei, il non fare.
Lo Yoga mette l’accento sullo sforzo del controllo, mentre per le pratiche buddhiste e taoiste la parola “controllo” è assolutamente fuori luogo, perché implicherebbe un rafforzamento dell’ego che osserva. Nell’area yogica vedantica e induista l’io personale non è in questione, perché si tratta di identificarsi col Sé cosmico, assoluto.
Nell’area buddhista l’ego (anche se in termini diversi da quelli occidentali) è tenuto in grande considerazione proprio perché costituisce la sostanzializzazione degli “aggregati” e dunque l’illusione per eccellenza, il motore di tutte le illusioni – il processo di liberazione non è infatti di tipo identificativo, bensì di assorbimento nel non-sé.
Se noi usiamo, nelle nostre pratiche di trasmissione e guida, la parola “controllo”, tradiamo, anche nel caso in cui la si traduca alla lettera, il testo originario, in quanto nella storia simbolica, nei simboli delle lingue europee, la funzione controllo scinde l’atto esperienziale-conoscitivo in due opposti: l’ego come istanza coercitiva che si erge in solitudine paranoica e la massa delle pulsioni indifferenziate che le sottostanno. Questa immagine interiore si realizza all’esterno nei rapporti di potere dell’uno sui molti, dell’eletto sulla massa, nodo in cui si annodano le ombre della paura dell’Altro.
Ma, eliminando questo fraintendimento circa il controllo, appaiono con evidenza ancora maggiore gli opposti che la tradizione Chan e Taoista tengono insieme: la disciplina (che comporta un certo sforzo) e la naturalezza. Nessuna spiegazione è possibile in proposito: si danno insieme e senza contraddizione.
Per quanto riguarda l’eredità taoista, occorre necessariamente una precisazione: la via di cui stiamo parlando non è più il Dao di Lao-Tze e Chuang-Tze ma quella che si profila nella Medicina Tradizionale Cinese e nella strutturazione di una cosmo-fisiologia-psicologia che si dà, e soprattutto si è data in passato, un clero, una teologia, riti e pratiche. Tutti elementi che nella visione originaria del Taoismo risultano devianti rispetto al wu-wei, perché pretendono di manipolare ciò che invece ci autoregola in noi e ci governa. Nell’ottica del wu-wei non esiste disciplina strutturabile e i brevi cenni, nei testi più antichi, alla respirazione, non ci autorizzano a ipotizzare delle tecniche. Ben presto però anche il Taoismo divenne una fucina di molteplici scuole, il che è contraddittorio alla proposta radicale, e la disciplina gli divenne necessaria, anzi le tecniche più elaborate gli sono proprie.
Oggi, quanto al rapporto fra naturalezza e disciplina, non è troppo difficile cogliere una certa differenza fra un insegnante, per es. di Qi Gong, dell’area buddhista-Chan e uno che si attenga strettamente alla trasmissione di tecniche per eccellenza taoiste. Ho cioè notato che un insegnante buddhista dirà per es. che il Qi Gong va fatto almeno tre volte alla settimana. Un insegnate taoista potrà ripetere con i suoi allievi una Forma più volte, senza però aggiungere nient’altro, forse senza neppure dire quale tipo di intenzione, o di intensità di concentrazione, né con che tipo di respiro.
Storicamente non esiste una scuola “pura” già dal settimo secolo d.C., eppure la psicologia dell’insegnamento taoista è diversa da quello buddhista. Nel primo l’accento non viene posto sulla disciplina, che pure è sempre in atto, ma come naturale intenzione della mente naturale di ogni uomo.
Per noi occidentali la disciplina è l’opposto della naturalezza e quel darsi insieme senza contraddizione (anche nell’insegnamento buddhista, seppure in modo diverso) può costituire un problema.
La maestria di un insegnante è forse proprio quella di farci saltare fuori dai nostri paramenti e dalle nostre abitudini mentali con la sola qualità della sua presenza. Quasi certamente all’inizio non vivremo disciplina e naturalezza insieme, per quanto l’insegnante si volga nel modo più diretto possibile al cuore-mente in cui sono insieme come uno è il cuore-mente.
Dopo molta pratica si potrà dire quale delle due (non-due) è prevalsa all’inizio in ciascuno di noi, ma guardando in profondità vedremo che l’altra, forse meno apparente, non vi si è mai dissociata. E’ stato l’io che osserva il fautore della scissione.
Ad un certo punto l’osservazione sarà senza osservatore, proprio come ci dice la tradizione.