Conversazione con Marida Tancredi, psicoanalista ex-insegnante
a cura di Rita Vitrano
Credo che la scuola possa ripartire soltanto da una grande motivazione collettiva di radicale rinnovamento e non di semplice svecchiamento. Un rinnovamento che prepari generazioni più sensibili e capaci rispetto al tema della armonizzazione personale-collettiva e della giustizia sociale.
Ma questa grande motivazione collettiva per ora non c’è, ci si riduce al confronto con altri sistemi scolastici che secondo me si basano su dubbi criteri di eccellenza, oppure sulla possibilità di rispondere a piani di organizzazione del lavoro che ancora non ci sono realmente. Si pensa di riorganizzare la scuola in funzione di un lavoro che non solo non c’è, ma manca anche di un reale progetto riformatore.
Parlare di scuola oggi vuol dire cercare di arrivare a creare questa motivazione collettiva, ossia un movimento verso una società che ci comprenda.
Il problema viene invece visto soltanto su un piano strettamente tecnico: imparare l’inglese, migliorare l’insegnamento e l’apprendimento della matematica, diminuire le ore di materie letterarie, più informatica, meno storia, via il greco. Tutto un problema esclusivamente tecnico di aggiustamento fra “le materie”.
Allora da dove iniziare?
Comincerei proprio dalla motivazione collettiva.
Ci sono alcune persone, alcuni gruppi che iniziano a chiedere una scuola diversa. Certo, chi non riesce a chiederla, ma protesta per la scuola che ha, sono gli studenti che dovrebbero essere i primi coinvolti. Ma in che modo protestano? C’è un grande abbandono scolastico, disinteresse, un forte atteggiamento del “tirare a campare” e cercare di cavarsela.
Ho avuto ragazzi dell’ultimo anno in terapia e li ho visti arrivare a quel punto sfiniti, senza più motivazioni allo studio, con la sensazione di non aver fatto nulla. Non è che non avessero studiato, ma la loro impressione è che “non c’era niente di interessante”. Eppure gli insegnanti si sono prodigati, convinti di aver riversato palate di roba dai libri, ma appunto erano solo palate di roba...
Si tratta di cominciare a ripensare completamente a tutta la funzione della scuola superiore, perché il suo compito dovrebbe essere più specificamente formativo di quanto sia stato finora, come centro di orientamento, assimilazione-integrazione, organizzazione, approfondimento, delle conoscenze disperse che i ragazzi hanno da più fonti.
Come? Nella scuola il rapporto fra le figure è differenziato nella reciprocità: la relazione è fra un esperto formatore e colui che è lì con la sua domanda formativa. Bisogna dare spazio a quella domanda, è l’allievo che deve arrivare a formulare la sua richiesta di formazione. I ragazzi fanno cinque anni di liceo, arrivano in fondo, “sputano” tutto e non hanno espresso la loro domanda. Il ruolo dell’insegnante è invece di portarli a definirla.
Questo pone subito alcuni ordini di problemi. Il primo è: chi forma i formatori? Come si formano i formatori?
Ho visto che per poter insegnare alla scuola elementare è richiesto che al percorso di laurea vengano integrati altri esami di metodologia d’insegnamento e di riflessione pedagogica, qualora non siano stati compresi nel piano di studio accademico svolto. Come dire che più che sapere le cose, viene affrontato il problema di come porsi nell’insegnamento, cos’è l’insegnamento, il rapporto fra insegnante e allievo.
Mi chiedo se questo venga richiesto anche all’insegnante di scuola superiore.
So che nell’ultimo esame di concorso, dopo la parte scritta che comunque non prevedeva saperi di ordine pedagogico e metodologico, e prima della prova orale, è stato chiesto ai candidati di svolgere una lezione frontale in cui si rivolgevano a una classe di studenti, una sorta di simulata, forse anche per mettere alla prova la capacità di relazionarsi al gruppo-classe. Tuttavia mi sembra ancora insufficiente e male impostato.
Visto che la scuola sarà sempre più di formazione, è essenziale chiedersi come formare i formatori.
La seconda questione è: se accettiamo che l’attore del processo formativo è lo studente. La famosa scuola attiva da John Dewey in poi, il modello pedagogico per l’infanzia, deve valere anche per le superiori. Non si capisce perché ci si preoccupi tanto che il bambino non sia passivo alle elementari, mentre poi dalle medie in su, l’allievo debba apprendere perinde ac cadaver. Deve imparare e basta, cose che più o meno gli piacciono. Le deve imparare. Magari poche, ma quelle.
Ma se l’allievo deve essere attore del proprio processo formativo lo sarà in tutto il percorso scolastico, finché veramente non abbia conquistato questa sua “domanda”.
L’insegnante è allora quello che passa la palla allo studente, è al servizio del suo gioco, non deve essere lui il protagonista della relazione, bensì il co-protagonista.
Come si dice nel processo terapeutico, anche qui ci sono due acrobati, uno è il trapezista, che fa tutte le evoluzioni e l’altro è il porteur, che sta fermo sul trapezio, lancia e riprende l’altro. La sua destrezza rimane nell’ombra e si sviluppa al servizio del volo dell’altro.
Bisogna rafforzare la capacità maieutica nel rapportarsi agli studenti
Sì, manca questa capacità, manca in verità la struttura per essere maieutici.
Se io ti do un programma in qualche modo perentorio, e tu devi eseguirne un tratto, come fai a essere maieutico? Diventi una macchina che deve produrre quel prodotto.
A me sembra che alla parola metodologia, che tu hai chiamato un “porsi rispetto al compito di insegnare”, vengono sostituiti termini tipo “strategia” per tenere i ragazzi in aula, e alla formazione viene data una connotazione legata alla produttività, all’efficienza del fare quantità.
E si crea così un sistema in cui si è tutti vittime e in cui nessuno crede più alla scuola: i ragazzi, innanzitutto, e i genitori, ma anche gli stessi professori che sono sempre più frustrati e in qualche modo si rendono conto di non essere utili. L’insegnante è una cinghia di trasmissione di non si sa che cosa in un sistema culturale in panne, il che finisce con l’incrementare la disistima di sé. Ho visto dei ragazzi uscire entusiasti alla prima lezione di filosofia e poi stufarsi. Cos’era successo? Che al loro incontro con la filosofia si erano accesi, ma è il professore che è poco motivato, è obbligato a eseguire il programma dell’anno. Pur accorgendosi che gli studenti si sarebbero voluti soffermare su un certo argomento, su una loro domanda, deve portare avanti il programma.
Deve “vendere” un prodotto in cui non crede, a delle persone che non lo vogliono.
L’insegnante è pagato male, il suo lavoro è umiliato, non c’è una stima sociale della scuola e perciò di chi ci lavora. Anche nei genitori manca la stima verso i professori. Spesso protestano più per i voti bassi che per la capacità di insegnamento e coinvolgimento dei ragazzi.
Concretamente in che modo fare spazio alla domanda formativa dello studente?
Penso a una diversa organizzazione, per esempio delle classi.
Faccio due esempi soli fra tanti. Molti anni fa ospitai una giovane studentessa di un liceo tedesco privato molto ben strutturato, in cui gli alunni seguivano classi diverse in considerazione del loro livello rispetto alle materie: lei seguiva la quarta per la letteratura tedesca, ma per matematica era in seconda. Lo studente non veniva bocciato, semplicemente inserito in un gruppo-classe dove potesse progredire. E’ un modello in uso anche negli Stati Uniti d’America e credo in molte altri parti del mondo, probabilmente più negli istituti privati, ma non vedo perché non si possa portare nella scuola pubblica.
Un esempio ancora più interessante l’ho trovato nel Limousin, in Francia, in un liceo sperimentale. Ciascun ragazzo all’inizio dell’anno assisteva alla presentazione del programma quadrimestrale di diversi insegnanti, per poi scegliere. Costruiva lui stesso il proprio percorso annuale seguendo il primo quadrimestre in una sezione, quello successivo in altre, tenendo conto del programma che lo interessava e della metodologia dell’insegnante. Lo studente è così davvero l’attore che viene chiamato a precisare la sua domanda di formazione, a chiedersi cosa sia più adatto a sé.
Nelle varie sezioni gli insegnanti dovrebbero essere messi in condizione di offrire programmi diversificati, certo dentro una cornice istituzionale, intesa come rispetto della propedeutica, scelta intelligente dei contenuti e contestualizzazioni sociali, ma ponendo i ragazzi davanti a possibilità varie che possano metterlo alla prova in scelte personali.
Il lavoro formativo diventa in questo modo più motivato, più collegiale, perché proporre integrazioni e particolarità implica il confronto sia con i programmi ministeriali, sia con le proposte dei diversi insegnanti. Ogni docente si confronterà con delle scelte che possono appartenergli più o meno. Una mia amica che insegna a Bordeaux mi racconta di quante ore lavori con i colleghi per prepararsi e confrontarsi in contenuti e metodologie, più che con i ragazzi in classe.
Questo porta anche a ribadire che i formatori devono essere pagati bene, ossia riconosciuti per tanto lavoro, anche perché nella nostra società il denaro costituisce la misura del valore sociale.
Come ripensare a certe parti di programmi che sembrano appartenere più al passato che alla nuova formazione, il greco ad esempio?
Sì, a questo punto viene a porsi il problema della tradizione, di come la scuola non possa rinunciare al suo ruolo di trasmissione rispetto a quella tradizione che ogni paese ha da consegnare alle nuove generazioni.
L’eliminazione del greco è già in atto, perché chi lo vuole studiare potrà farlo all’università. E’ una lingua molto lontana da noi.
Non si può estirpare il latino, perché ci dà i fondamenti della nostra lingua e quindi è ovvio conservarlo.
Capisco che non si possa fare tutta la storia della filosofia, tutta la storia: se alle elementari e medie si è fatta molta storia, alle superiori ci si può specializzare su una parte, ossia procedendo per grandi temi invece che per periodi, si può coprire con un tema un intero periodo. E’ già da anni in atto un esperimento di questo tipo, ma timido e contraddittorio, talvolta farraginoso.
Anche questo è argomento di quel ripensare...
Se un insegnante fonda il suo programma su alcuni temi e un altro su altri o per ampie storicizzazioni, il ragazzo potrà scegliere. L’importante alla fine è ricondurre l’intero progetto al protagonista, a colui che deve essere sempre la parte attiva del processo formativo, mentre gli altri coprotagonisti adempiono al loro compito di esperti. Sarebbe una grande occasione per l’insegnante centrarsi sulla propria esperienza di un certo sapere e sullo scambio con altri e diversi saperi.
E i genitori?
Credo che i genitori fino alla maggiore età del ragazzo vogliano essere coinvolti e debbano esserlo, ma avendo chiara la funzione della scuola e che il figlio è l’attore, non loro. I genitori hanno un ruolo di sostegno, stanno alle spalle dei figli, come del resto è per tutta l’adolescenza non soltanto rispetto alla scuola. Stare dietro è sostenere, pronti a sorreggere; è anche non fare ombra al ragazzo. Ma certamente sono coinvolti nella scuola.
Si obietta spesso che la nostra scuola secondaria rivolge molte attenzioni all’aspetto nozionistico, venendo meno alla comprensione delle dinamiche fra i ragazzi e dei significati relazionali
Per poter offrire questo, gli insegnanti devono confrontarsi collegialmente e con gli allievi e questo obbliga a una comunicazione comprensibile a tutti, che trasmetta un progetto, in cui viene proposto lo studio di questo e non di quello, perché questo appartiene e quello resta lontano dal sentire personale di allievi e insegnanti. Motivare questo è far passare un messaggio integralmente socio-mentale.
La scelta del ragazzo tocca il suo interesse e coinvolge tutti i suoi rapporti a ogni livello con gli altri. Docenti e allievi sono coinvolti in scelte che li impegnano integralmente: a essere in gioco è tutta la struttura socio-mentale, l’affettività, lo psichismo, e questo accade naturalmente anche rispetto alle materie scientifiche.
Stiamo dicendo che la posizione del ragazzo è centrale, lui è l’attore, e che quella dei genitori è alle sue spalle, a sostegno. In questa immagine dove è posizionata la scuola?
È come pensare a un triangolo aperto da un lato. Il ragazzo ne è il vertice. Da qui si volta verso la scuola (un lato), verso i genitori (l’altro lato), verso l’ "aperto". Ma nella scuola lo studente è rivolto prevalentemente verso la scuola stessa, e in una maniera che mi piace dire “di trequarti”, ossia non è uno sguardo diretto, frontale, ma obliquo, fra la scuola e l’aperto. E nello stesso modo la scuola vede l’alunno. Mi piace questa immagine di trequarti perché mitologicamente è il vero modo di guardare, non frontalmente, perché l’altro diventerebbe tutto il suo orizzonte, l’oggetto che sta davanti ed esaurisce il possibile. La scuola non è l’oggetto che sta davanti allo studente, è una fonte, il punto da cui ci si volge verso se stessi. La visione obliqua, un po’ in luce e un po’ in ombra, lascia la persona più libera, mentre il rapporto frontale è prescrittivo.
La scuola invece guarda il ragazzo a occhi socchiusi, per vederlo nell’orizzonte che ha davanti, dalla parte aperta.
Non so come guardino i genitori. Certo sono molto in difficoltà nell’adolescenza dei figli, e nel vedere il loro disagio scolastico.
Anche per problemi di rispecchiamento narcisistico, di genitorialità mancata: il disagio del figlio può essere vissuto come un insuccesso personale.
Quanto ai ragazzi, arrivano sfiniti al quarto o quinto anno, riprendono un po’ di lena quando si sentono vicini alla fine del quinto, all’ultimo sforzo per essere liberi, vivendo questa come una prova sacrificale. Il che non sarebbe male, se il sacrifico mantenesse nella nostra società l’antico valore e dunque potesse essere vissuto attraverso un rito di passaggio.
Non pochi giovani di diciassette/diciotto anni si rivolgono oggi alla psicoterapia.
Accade anche che i genitori senza volerlo si appoggino ai figli, sono loro stessi così in difficoltà nella vita che nel loro incespicare si appoggiano. In che modo si preoccupano dei figli? Spesso è un modo per distogliersi dai loro problemi.
Il tema di definire i confini fra il genitore e il figlio è sempre uno dei più grandi per entrambi. A volte i genitori sembrerebbero raccontare del figlio, in realtà parlano di sé.
Negli ultimi anni sembra dunque che siano più numerosi i ragazzi che si ritrovano ad andare in psicoterapia
Sì, in passato raramente venivano studenti, invece nell’ultimo periodo ho seguito 4 liceali, dal terzo al quinto anno. Ho avuto in passato pazienti teenagers ma non perché la scuola fosse il fuoco della loro problematica. L’anno scorso è venuta una ragazza con le mani devastate da un eczema. Il medico che l’aveva in cura riteneva che il problema nascesse dalle sue difficoltà scolastiche. Era ossessionata da una scuola che era convinta di aver scelto, ma è più giusto dire che i genitori l’avevano indotta a scegliere.
In molti casi il ragazzo non si accorge di che cosa avviene al momento della scelta della scuola superiore e pensa di aver deciso da sé. Le mani di quella ragazza non potevano sfogliare i libri, la carta le dava allergia; ne è uscita con le mani guarite dopo aver cambiato scuola e naturalmente lavorando sul suo rapporto con i genitori.
E’ vero che i ragazzi non vengono in terapia solo per la scuola, però un tempo se avevano dei guai in casa trovavano nella scuola una sponda, uno spazio di relazioni indipendenti dalla famiglia. Oggi invece vanno a scuola e trovano un ambiente costrittivo e sterile, uno spazio in cui un vero confronto è impossibile, che acuisce il disagio.
I problemi che hanno in famiglia non sono conclamati, apparentemente va tutto bene, i genitori sono permissivi, non sembra ci siano malesseri tali da generare patologie.
In realtà ci sono ma restano sotterranei. Un tempo l’atteggiamento più “dittatoriale” dei genitori faceva esplodere il malessere dei figli, oggi invece resta sommerso e invisibile. Si veda tutta la tematica dell’assenza del padre, della complessità relazionale con la madre che lavora... Siamo rimandati insomma alla sofferenza della famiglia mononucleare e al travaglio delle famiglie nuove e diverse. La criticità di due ambienti difficili, la casa e la scuola, amplifica le problematiche del lungo tunnel fra pubertà ed età adulta. Per fortuna in alcuni casi la famiglia si rende conto e cerca aiuto. La scuola come istituzione non è consapevole di creare e accrescere il disagio adolescenziale. E da qui bisognerà iniziare a ripensarla completamente nuova.